Un radicale cambiamento nei sindacati perché ritrovino il loro indispensabile ruolo
Crisi di credibilità – I sindacati obbligati a cambiare
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 1 marzo 2015
Non è di moda parlare bene dei sindacati. Non solo in Italia ma in gran parte dei Paesi industrializzati le associazioni sindacali sono messe sotto accusa per avere allargato il potere dei propri dirigenti più che i diritti dei lavoratori e per avere irrigidito il mercato del lavoro allo scopo di rafforzare la propria presenza, a danno della flessibilità e dello spirito di cooperazione necessari per sostenere lo sviluppo economico.
In Italia si può anche attribuire a colpa dei sindacati la strenua opposizione all’attuazione dell’art.39 della Costituzione, che prevede la regolamentazione della loro vita interna secondo principi democratici. Nella mia personale esperienza posso aggiungere le nefaste conseguenze della competizione sindacale, che obbliga le diverse rappresentanze a farsi concorrenza l’una con l’altra, mettendo in secondo piano gli interessi dei lavoratori, delle aziende e dell’intero Paese.
Questo coro di accuse, in parte esagerate ed in parte giustificate, ha dominato per un’intera generazione la pubblicistica di tutto il mondo ed è ritenuta una delle principali ragioni della caduta di potere e di prestigio delle associazioni sindacali.
Negli ultimi tempi quest’analisi così brutale (anche se sotto molti aspetti veritiera) è stata completata da riflessioni più meditate, che approfondiscono non solo le colpe dei sindacati ma anche le gravi conseguenze negative provocate dal generale loro indebolimento sull’aumento delle disuguaglianze e sulla crescita economica. Si tratta non solo di analisi del mondo accademico (come quelle di Piketty e di Stiglitz) ma anche di organi di stampa non certo anticapitalisti come l’International New York Times (Nicholas Christof) che attribuiscono alla caduta dell’influenza del sindacato una delle cause determinanti dell’aumento dell’ineguaglianza e del crollo del potere d’acquisto del ceto medio. E quindi della minore crescita e dell’aumento della disoccupazione. Non so se sia valida anche per l’Italia l’analisi dell’American Sociological Review che attribuisce la causa di un terzo dell’aumento della disuguaglianza dagli anni ottanta in poi alla caduta di potere dei sindacati. Non sono nemmeno abbastanza familiare con i problemi delle relazioni industriali per attribuire un valore quantitativo alle tesi del prof. Freeman, che sottolinea il decisivo ruolo dei sindacati nel migliorare la produttività delle imprese.
Posso tuttavia affermare che la perdita di potere delle rappresentanze sindacali ha coinciso anche in Italia con un aumento delle disparità dei redditi all’interno delle aziende, disparità che non raggiungevano i livelli attuali nemmeno ai tempi dei padroni delle ferriere. Ricordo sempre che quando trent’anni fa scrissi un articolo in cui sostenevo che la differenza di remunerazione da uno a trenta tra il direttore generale e gli addetti alla catena di montaggio all’interno della stessa azienda mi sembrava eccessivo, ricevetti un incredibile numero di lettere di approvazione, mentre oggi si ritiene che una differenza da uno e trecento sia un fatto del tutto naturale e una logica conseguenza del corretto funzionamento del sistema capitalistico.
Se poi ci soffermiamo a riflettere ulteriormente sul reale funzionamento del mondo produttivo ci troviamo di fronte ad altre contraddizioni perché la globalizzazione ha causato un’indubitabile fuga di aziende verso le aree del mondo meno sindacalizzate e con un basso costo del lavoro mentre, dall’altro, alcune delle aziende con sindacati forti e con i costi orari del lavoro più elevati del mondo, come le imprese automobilistiche tedesche, continuano a conquistare mercati e a macinare profitti.
Al raggiungimento di questo risultato contribuiscono in maniera determinante i protocolli di intesa fra le imprese e il sindacato che disciplinano non solo le modalità di lavoro ma anche l’affinamento delle tecniche di apprendimento e le protezioni del welfare dei dipendenti, a loro volta impegnati a contribuire in modo continuativo al miglioramento della produttività delle aziende.
Non credo che questo sia un modello esclusivamente germanico, perché esempi simili si trovano in Giappone e nella Corea del Sud. Anche se ritengo che questi principi debbano essere applicati in modo diverso da Paese a Paese, ho tuttavia letto con molto interesse il lunghissimo e analitico documento sottoscritto unitariamente da tutti i sindacati e dal datore di lavoro alla Ducati di Bologna, ora posseduta dal gruppo Wolkswagen.
Un documento molto particolare, di oltre cinquanta pagine, con dettagli di un livello di meticolosità quasi irraggiungibile, ma che appare guidato dall’unico obiettivo di rendere compatibili le esigenze di flessibilità e di produttività dell’impresa con il progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro dei dipendenti e del welfare delle loro famiglie.
Naturalmente gli esperimenti hanno i limiti degli esperimenti e, soprattutto, bisogna vedere come vanno a finire ma, in ogni caso, tutto quello che vedo intorno mi spinge a pensare che, senza i sindacati, le disparità non potranno che aumentare dentro e fuori dalle fabbriche ma che, tuttavia, i modi di operare dei sindacati e i modelli perversi della concorrenza fra di loro finiscono spesso col raggiungere risultati opposti, sostanzialmente contrari al progresso collettivo e alla migliore distribuzione della ricchezza.
Bisogna quindi concludere che i sindacati sono non solo importanti ma addirittura indispensabili per la giustizia sociale e per il progresso economico ma che tutto ciò può essere raggiunto solo attraverso un radicale cambiamento del loro modo di operare e che questo processo di riforma non può che trovare origine all’interno dei sindacati stessi.
Come accade per i partiti politici, le organizzazioni sindacali si trovano di fronte ad un bivio: continuare a perdere di potere guardando solo a se stesse o ritrovare il loro indispensabile ruolo attraverso un profondo processo di revisione delle proprie strutture e del proprio modo di operare. Una terza via non esiste.