Ma chi si ricorda dei poveri?
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 Ottobre 2009
Nel corso dell’ultima generazione la distribuzione del reddito è peggiorata anche all’interno di quasi tutti i Paesi sviluppati del mondo. Le loro economie hanno continuato a progredire ma le differenze di reddito e di ricchezza fra ricchi e poveri sono progressivamente aumentate. Anche le famose classi medie, a cui tutti i programmi politici si rivolgono, hanno ben poco guadagnato. Anzi hanno soprattutto perduto.
Questa tendenza si è manifestata tanto negli Stati Uniti quanto nella maggioranza dei Paesi europei. Anche in Italia la disuguaglianza, che era diminuita fino al 1982, ha avuto poi un forte aumento all’inzio degli anni novanta ed è ancora oggi tra le più elevate di tutti i Paesi dell’Ocse nonostante alcuni non trascurabili trasferimenti di bilancio a favore dei più poveri.
Rileggendo attentamente le analisi degli economisti e, soprattutto, riflettendo sui dati statistici disponibili, si trovano spiegazioni abbastanza convincenti sulle cause di questo generale aumento delle distanze tra ricchi e poveri.
La prima causa è la crescita costante, fino alla recente crisi, del valore dei beni posseduti. Sia dei beni immobili che dei titoli finanziari. È chiaro che se il valore delle case o delle azioni raddoppia cresce anche la differenza fra chi ha e chi non ha.
In secondo luogo la distanza è aumentata per il prevalere di politiche fiscali che hanno abbassato le aliquote delle imposte sui redditi più elevati e sulla ricchezza posseduta. Negli Stati Uniti, nel periodo del dopoguerra, l’aliquota massima è progressivamente passata da oltre il 60% al 36% e quest’esempio è stato seguito da quasi tutti gli altri Paesi del mondo, in una concorrenza volta anche ad evitare la migrazione dei capitali verso i Paesi a più basso livello di imposizione fiscale.
Una terza causa è la drastica riduzione delle imposte di successione che, pur essendo oggetto di frequenti elusioni ed evasioni, avevano in passato avuto l’effetto di riequilibrare la distribuzione della ricchezza nel lungo periodo.
Un quarto fattore riguarda i cambiamenti nel mondo del lavoro. Gli immigrati hanno infatti contribuito a mantenere depresso il salario dei lavoratori, soprattutto di quelli a basso livello di specializzazione. A questo si aggiunge la perdita di potere dei sindacati e il passaggio dei lavoratori da posizioni più protette verso un precariato sempre più diffuso.
Per anni abbiamo sentito predicare le virtù del precariato per accorgerci solo ora di quali siano i suoi vizi.
Tutti questi fattori di cambiamento sono stati giustificati e benedetti da una radicale mutazione di carattere etico e culturale per cui anche le più macroscopiche differenze di reddito non sono più guardate con occhio scandalizzato o negativo. Differenze dell’ordine delle centinaia fra il salario dei massimi dirigenti e dei lavoratori della stessa impresa sono oggi ritenute naturali. Nessuno più si scandalizza delle crescenti disparità.
Come si vede, le forze che spingono verso una sempre più iniqua distribuzione del reddito sono potenti e molto popolari anche presso le categorie che ne vengono svantaggiate nel lungo termine. Basta riflettere sull’appoggio generalizzato alle politiche fiscali che sono state tra le maggiori cause delle crescenti iniquità.
Queste osservazioni ci rendono pessimisti anche riguardo al futuro perché nessun politico, nemmeno tra coloro che si definiscono riformisti, sembra avere la forza di proporre una politica distributiva più giusta senza la quasi certezza di perdere le elezioni. La giustizia distributiva gioca un ruolo di primo piano nelle dichiarazioni generali ma viene relegata in ultima fila quando il programma deve tradursi in decisioni concrete.
È chiaro che sto parlando di un mondo in cui la contraddizione fra giustizia e democrazia è sempre più evidente conducendoci passo passo verso una crisi definitiva dei fondamenti di solidarietà e di convivenza della nostra società. Ed è proprio questa rottura che coloro che si definiscono riformisti debbono con ogni sforzo evitare.
Distinguendo fra demagogia e democrazia, fra i vantaggi di oggi e l’impoverimento futuro, spiegando il ruolo necessario e positivo dello Stato in una società moderna e proponendo con coerenza le azioni da compiere perché le crescenti ingiustizie non distruggano il nostro futuro. Il che significa ritornare anche a spiegare con serenità il vecchio ma ancora attuale concetto della giusta fiscalità. Credo che sia giunta l’ora di ricominciare a parlare di tutte queste cose. Lo credo perché lo sfarinamento della società e l’egoismo personale stanno arrivando al punto di mettere in crisi il funzionamento stesso della nostra convivenza.
Da mesi si dibatte sulle ragioni per cui i partiti riformisti stanno perdendo quasi ovunque le elezioni. E se la spiegazione fosse semplicemente che queste forze hanno perduto il coraggio di essere riformiste?