Libia, Palestina, Algeria, Sudan: che cosa sta cambiando
Israele, Sudan e Algeria: che cosa sta cambiando
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 aprile 2019
Anche se comprensibilmente concentrati sui problemi libici, che dopo otto anni di guerra sono sempre più indecifrabili e quindi difficilmente risolvibili, non dobbiamo sottovalutare l’importanza di altri recenti avvenimenti che condizioneranno il futuro del Mediterraneo e dell’Africa.
Partiamo da una breve riflessione sulle conseguenze delle elezioni israeliane che, con la vittoria di Netanjahu, renderanno ancora più tesi i rapporti fra israeliani e palestinesi, con plausibili ulteriori annessioni di territori della Cisgiordania, con accresciute tensioni con la Siria per le alture del Golan e con l’ulteriore rafforzamento del già stretto legame fra gli Stati Uniti ed Israele. Un rafforzamento che si presenta come un caso unico in un’area nella quale gli Stati Uniti stanno progressivamente limitando il proprio ruolo. Non troviamo infatti traccia di presenza americana negli altri due importanti avvenimenti che si sono succeduti in questi giorni.
Il primo dei quali riguarda la destituzione di Omar al Bashir, che aveva governato con il pugno di ferro il Sudan per un ininterrotto periodo di trent’anni. Un’assenza degna di rilievo anche perché gli scontri fra Bashir e gli Stati Uniti erano stati continui sia per la vicinanza del dittatore sudanese ai fondamentalisti islamici, sia per le sue grandi responsabilità nella tragedia del Darfur e negli scontri con il Sud Sudan.
Non pensiamo però che la “rivoluzione”sudanese possa essere considerata una prosecuzione della primavera araba. Pur avendo preso l’avvio da importanti e crescenti manifestazioni popolari, è passata in breve tempo sotto il controllo dell’esercito. Sono stati i militari a prendere rapidamente in mano la situazione e sono stati i militari a deporre il dittatore, anche se il potere è passato dal ministro della difesa a un altro leader delle forze armate. Come se la primavera araba avesse insegnato all’establishment militare che il sacrificio dei leader precedenti è lo strumento più idoneo per difendere il proprio potere.
Degno di ancora maggiore interesse è per noi la “rivoluzione”algerina. Anche solo per il semplice fatto che riguarda una nazione collocata a due passi dall’Italia, estesa quasi otto volte il nostro paese, e grande nostro fornitore di gas e petrolio. Un paese di 45 milioni di abitanti, di età media giovanissima, con un elevato livello di istruzione, e con un altrettanto elevato livello di disoccupazione.
Un paese orgoglioso della propria identità e ricco di risorse, ma da cui i giovani sognano di espatriare. Un’Algeria da lungo tempo gestita con mano ferrea da un governo che ha potuto contare sugli immensi introiti della vendita di idrocarburi, sulla quale si sono fondati ingenti investimenti pubblici ma anche un altrettanto ingente livello di corruzione. Abdelaziz Bouteflika, con un passato da leader rivoluzionario e popolare, aveva salito tutti i gradini della politica fino a diventare Presidente con pieni poteri a partire dal 1999, salutato a lungo come salvatore della patria per avere posto fine ad una tragica guerra civile che aveva provocato più di duecentomila morti. Col passare del tempo il suo potere è divenuto sempre più autoritario: insieme al ristretto gruppo dei suoi collaboratori si è progressivamente allontanato dal resto del paese. Pur essendo vittima di un grave ictus che, a partire dal 2013, gli aveva progressivamente reso impossibile esercitare una qualsiasi attività di governo, Bouteflika ha, nei mesi scorsi, deciso di presentarsi per la quinta volta alle elezioni nelle quali avrebbe ovviamente ricevuto un mandato plebiscitario.
Così come è avvenuto in Sudan la rivolta popolare ha interrotto questo lungo processo di accentramento del potere e, come in Sudan, l’establishment, che per anni aveva affiancato e poi sostituito il Presidente, lo ha costretto alle dimissioni e si è affrettato a dividersi la sua eredità politica. Il quadro è però più complicato di quello sudanese perché l’Algeria ha una base sociale con un diffuso livello di istruzione, ha quadri tecnici competenti e una burocrazia in grado di sostenere un governo più equilibrato e trasparente. Dopo anni di una politica diretta dall’alto non si tratta certo di un processo semplice e naturale ma la campagna per le elezioni che si svolgeranno il 4 luglio prossimo dovrà essere seguita con un interesse superiore a quello che l’Italia ha sempre riservato all’Algeria.
L’ultimo avvenimento “africano” si è svolto invece a Roma dove Papa Francesco si è inchinato e ha baciato i piedi dei due leader del Sud Sudan che ferocemente si combattono per il primato politico del paese. È stato un gesto di grande generosità e certamente utile per il futuro di questo popolo martoriato dalla guerra, anche perché accompagnato dall’auspicio che le divisioni etniche e politiche siano finalmente superate. Il Papa ha voluto dimostrare che chi crede davvero nella pace non ha il timore di umiliarsi. Penso però che, in privato, le parole e gli atti di Papa Francesco di fronte ai governanti del Sud Sudan siano stati accompagnati da gesti più vigorosi e da qualche duro ammonimento: le loro inimicizie hanno infatti provocato tragedie inimmaginabili a un popolo già così tanto sofferente.