Cambiamenti globali per una sfida globale
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 05 Settembre 2010
Fiumi di inchiostro sono stati versati nei giorni scorsi per commentare il “sorpasso” economico della Cina rispetto al Giappone, anche se questo sorpasso non solo era già scontato ma, tenendo conto della parità del potere d’acquisto (così detta Ppp), era già avvenuto da tempo. E senza inoltre riflettere che si tratta di un evento ovvio: anche se la Cina è in buona parte ancora un Paese in via di sviluppo non era difficile immaginare, data la sua impressionante crescita, che il suo Pnl sarebbe stato in breve tempo superiore a quello di un Paese ad altissimo livello di sviluppo ma con una popolazione più di dieci volte inferiore.
Questa scontata constatazione è invece una felice occasione per riflettere sul fatto che, ben prima della metà del secolo, la Cina e l’India supereranno non solo il Giappone ma anche gli Stati Uniti. Tenuto conto della capacità di assorbimento della tecnologia, della forza innovativa e della dimensione di questi due Paesi, solo tensioni politiche interne o gravi errori dei governanti potranno ritardare questo storico cambiamento.
Un cambiamento reso inevitabile non solo dallo squilibrio fra consumi e risparmi americani ma, ancora di più, dall’enorme costo della politica estera degli Stati Uniti. Più di centomila soldati in Afghanistan, ancora più in passato in Iraq e basi militari in tutto il mondo hanno contribuito a produrre un deficit nel bilancio federale che è potuto durare fino ad ora solo perché i cinesi sono negli ultimi anni divenuti i grandi acquirenti del debito pubblico americano. Ma anche gli acquisti cinesi non possono durare all’infinito e, in ogni caso, più gli Stati Uniti prendono a prestito denaro dal resto del mondo, più il resto del mondo diventa potente nei confronti degli Stati Uniti.
Il secolo americano è stato tale perché la forza militare si è accompagnata a una altrettanto grande forza economica e a un altrettanto importante primato nel così detto “soft power” cioè il potere che è frutto di forza culturale, artistica e di modelli di vita. Questo magico potere, definito dal prof Joseph Nye come la capacità di ottenere i risultati voluti attraverso la forza dell’attrazione e non della coercizione, si sta rapidamente esaurendo, anche per effetto di errori strategici che hanno procurato agli Stati Uniti una crescente ostilità da parte di centinaia di milioni di cittadini del mondo. La superiorità militare americana rimane e rimarrà in ogni caso tale ancora a lungo, ma gli altri pilastri del primato si sono fortemente indeboliti. Il futuro non sarà uguale al passato. Non solo per gli Stati Uniti ma anche per gli altri Paesi, soprattutto europei, che hanno goduto per secoli di posizioni di forza privilegiate nello scacchiere mondiale.
I paesi occidentali sono infatti diventati ricchi non solo per le virtù del libero mercato ma anche perché essi, combinando forza politica, forza militare, forza economica e “soft power”, hanno potuto imporsi nel mondo. Come nel caso della Compagnia delle Indie e nella guerra dell’oppio, le forze di mercato hanno portato i massimi benefici ai Paesi occidentali perché essi sono stati in grado di impedire che le stesse forze operassero altrove.
Con la crescita del Giappone si era inserito un nuovo protagonista senza cambiare le regole del gioco. Con l’arrivo della Cina (e dell’India, del Brasile e degli altri nuovi attori dell’economia mondiale) sono cambiate le stesse regole del gioco.
L’economia di mercato è ancora lo strumento fondamentale del loro sviluppo ma il controllo del mercato delle materie prime si sta rapidamente rovesciando e i governi dei nuovi protagonisti dell’economia mondiale stanno assumendo il ruolo che era in precedenza un’esclusiva dei Paesi occidentali. Il tutto spinto dagli obiettivi di autosufficienza alimentare ed energetica e dalle strategie a livello mondiale che questi Paesi sono in grado di giocare. D’altra parte non è nemmeno pensabile che in epoca di globalizzazione totale come quella in cui viviamo il 15% della popolazione mondiale possa dettare le regole al restante 85%.
Questo grande cambiamento sta naturalmente mettendo in allarme tutti, anche perché richiede decisioni di tale portata che i governanti non sembrano in grado di prendere. Tuttavia non vi è nessuna ragione per credere che la crescita del nuovo mondo metta necessariamente a rischio la nostra prosperità. Certamente il mondo sarà più concorrenziale, esigerà da parte nostra più intelligenza e più capacità di collaborazione e cambiamento, ma anche le prospettive e le occasioni di sviluppo si moltiplicheranno, come la crescita delle esportazioni germaniche in Asia sta oggi dimostrando. D’atra parte sono convinto che sarà impossibile uscire stabilmente dalla presente crisi mondiale se non aggiungendovi due miliardi di nuovi consumatori, anche se questo richiederà un radicale cambiamento dei modelli di vita di tutti noi.
Resistere alla globalizzazione è in ogni caso impossibile e velleitario perché i rapporti di forza sono già cambiati e un conflitto in questo campo sarebbe catastrofico per tutti noi. Affrontare la globalizzazione coi necessari cambiamenti politici, economici e organizzativi è invece possibile purché non si nasconda la grandezza e la difficoltà della sfida. L’unico aiuto che potremo dare ai nostri figli è proprio quello di affrettare i cambiamenti necessari per vincere questa sfida. Altrimenti (come ho paura sia il caso dell’Italia) la loro vita sarà molto peggiore della nostra.