Cina: Il voto di Taiwan riduce i contrasti
Il ruolo della Cina – Il voto di Taiwan che riduce i contrasti
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 gennaio 2024
Le recenti elezioni tenute a Taiwan non sono certo piaciute a Pechino, ma le cose non cambieranno molto, almeno per il prevedibile futuro. Pechino non è contenta perché ha vinto il DPP (Partito Progressivo Democratico), il gruppo politico meno favorevole a stringere rapporti stretti ed amichevoli con la Cina.
Il leader di questo partito, dal complicato nome di Lai Ching-te, si è spesso esercitato in affermazioni di forte avversione nei confronti della Cina ed era stato più volte oggetto di altrettante espressioni ostili da parte di Pechino.
Il fatto che Lai abbia vinto le elezioni e il suo partito abbia prevalso per la terza volta non ha quindi fatto piacere al governo cinese.
L’analisi più approfondita dei risultati elettorali spinge invece conclusioni meno radicali. Il presidente Lai è infatti stato eletto con il 40% dei voti, con una perdita del 17% rispetto ai suffragi ottenuti dal suo predecessore, la Signora Tsai.
Il DPP, inoltre, non ha più la maggioranza dei parlamentari, che passano da 113 a 51, superati di un soffio dal partito più vicino a Pechino (KMT), che ottiene 52 parlamentari.
Molto interessante il fatto che gli elettori di Taiwan, per garantire un certo bilanciamento dei poteri, abbiano quindi finito con l’adottare una specie di voto disgiunto. Resta infine da notare che, a fianco del candidato di opposizione che ha raccolto il 30% dei voti, si è aggiunto un nuovo leader politico (Ko Wen-je) che, pur presiedendo un partito appena nato, è arrivato al 26.5% dei suffragi.
Il governo cinese, quindi, pur per nulla soddisfatto dei risultati delle elezioni, può tuttavia sostenere che il DPP non rappresenta la maggioranza dell’opinione pubblica di Taiwan, anche perché il partito di Ko ha portato avanti soprattutto una battaglia di politica interna, attaccando il governo per i bassi salari e l’altissimo costo delle abitazioni ma, riguardo ai rapporti con la Cina, è più vicino alle posizioni del KMT che non a quelle del nuovo presidente.
Naturalmente, come non è inconsueto nella vita politica, le tensioni personali hanno impedito un accordo che avrebbe visto vincitore uno di essi, ma non certo tutti e due.
Tuttavia le elezioni di Taiwan non ci interessano per i problemi di politica interna, anche perché si tratta di un paese a noi lontano e con un numero di abitanti poco superiore ai venti milioni (meno di Shanghai) anche se produce i più raffinati componenti elettronici del globo.
A noi importa invece molto sapere se queste elezioni cresceranno o diminuiranno le tensioni fra gli Stati Uniti e la Cina. Sotto quest’aspetto almeno le prime reazioni sono state in qualche modo tranquillizzanti.
Il Presidente Biden si è infatti affretto a dichiarare che gli Stati Uniti non offriranno alcun sostegno all’indipendenza di Taiwan e le congratulazioni americane al vincitore sono state affidate a due funzionari in pensione che non rappresentano, evidentemente, il governo americano.
Da parte cinese il ministro degli Esteri Wang ha ovviamente ribadito che ogni passo verso l’indipendenza di Taiwan sarebbe stato severamente punito.
Il che non costituisce nulla di nuovo e, almeno per ora, queste affermazioni non sono state accompagnate da manovre navali nei 180 chilometri di mare che separano la Cina da Taiwan.
D’altra parte, almeno secondo molti osservatori, proprio l’eccessiva esibizione di manifestazioni di forza militare e l’altrettanto pervasiva presenza cinese nella campagna elettorale hanno presumibilmente favorito la vittoria del DPP, che pure si trovava in grande difficoltà per i problemi riguardanti l’aumento della disoccupazione e del costo della vita.
La situazione politica rimarrà quindi non dissimile da quella precedente le elezioni ma, almeno da quanto traspare dalle prime prese di posizione, con una certa riduzione delle tensioni, una maggiore disciplina nel linguaggio e una minore esibizione di forza muscolare e di esercitazioni militari.
Tutto questo è evidentemente facilitato dal precedente incontro fra Joe Biden e Xi Jinping, colloquio che non ha avuto certo conseguenze decisive per la storia del mondo, ma che ha tuttavia manifestato il proposito di mantenere costanti contatti riguardo ai più importanti problemi di politica internazionale.
Le fragilità e i problemi del nostro pianeta non saranno quindi risolti da queste elezioni, ma almeno non se ne creeranno di nuovi, anche perché i rapporti economici fra l’isola e il continente cinese sono molto forti. Basti pensare che le imprese taiwanesi posseggono nella Cina continentale attività superiori ai quaranta miliardi di dollari.
Questo non significa che ci si stia avvicinando ad una soluzione. Significa solo che lo scontro elettorale non ha reso più probabile un confronto più sanguinoso. Per il resto non dimentichiamo che, quando il problema di Taiwan fu sollevato nello storico incontro fra Mao Zedong e Nixon nel 1972, si convenne che per trovare la soluzione si sarebbe dovuto aspettare il passaggio di un secolo.
Essendo ancora ben lontani da quella scadenza, ci dobbiamo accontentare del fatto che un appuntamento elettorale che prometteva fuoco e fiamme non abbia reso l’ipotetica data di quell’accordo ancora più lontana nel tempo.