La fine di Bin Laden ci offre l’occasione per dirottare risorse dalla guerra alla pace ed allo sviluppo
Articolo di RomanoProdi su Il Messaggero del 5 maggio 2011
È più che comprensibile l’esultanza del Presidente e del popolo americano per la fine di bin Laden. La tragedia delle torri gemelle non solo ha gettato in tutto il mondo lutto e paura ma ha radicalmente cambiato la politica americana dell’intero decennio che abbiamo alle spalle, spingendo gli Stati Uniti al grande errore della guerra in Iraq e obbligando la Nato ad un prolungato sforzo in Afghanistan per distruggere per sempre quello che appariva a tutti la grande base del terrorismo internazionale.
La fine di bin Laden non è perciò solo un’attesa resa dei conti per una indimenticabile tragedia, ma è l’occasione per entrare in una nuova fase della lotta contro il terrorismo e, soprattutto, in una nuova fase delle relazioni con tutto il mondo islamico. Con questo non voglio assolutamente affermare che il terrorismo sia stato sconfitto o che sia entrato in una crisi irreversibile: oggi è ancora più necessario vigilare contro i colpi di coda che saranno certamente tentati per dimostrarne la permanente forza.
La scomparsa di bin Laden, iniettando una nuova fiducia nel popolo americano, rende tuttavia più facile la messa in atto della politica enunciata al Cairo nel giugno del 2009 ma ancora non giunta ad una fase operativa. Una politica di apertura che distingue nettamente fra il terrorismo e gli stati islamici. Verso questi Obama ha compiuto non solo un’ apertura politica ma ha assunto un impegno concreto per il loro sviluppo e per un loro attivo reinserimento nella comunità internazionale.
Il discorso del Cairo non ha avuto seguito a causa delle tensioni quotidianamente sollevate dalla guerra in Afghanistan, dai residui della guerra irakena e, soprattutto dalla permanenza di regimi autoritari con i quali gli Stati Uniti avevano spesso rapporti di collaborazione ma che non potevano certo essere partner di una strategia di rinascita economica ed insieme democratica di questi paesi.
Le conseguenze della scomparsa di bin Laden debbono perciò essere strettamente collegate alle rivoluzioni avvenute nei mesi scorsi nel Golfo e nel Mediterraneo. Il combinato disposto di questi eventi ci pone di fronte a nuovi possibili scenari, purchè li si voglia davvero percorrere.
Da un lato si potrà pensare a sforzi più costruttivi per l’alleggerimento e la fine della guerra in Afghanistan mentre, dall’altro, si apre un maggior spazio politico per aiutare in modo concreto coloro che hanno, senza l’aiuto dei fondamentalisti, cambiato il quadro politico di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Barhain e Yemen. Si apre cioè una prospettiva nuova, che è quella di potere progressivamente spostare in modo condiviso attenzioni e risorse da obiettivi militari a obiettivi civili quali i diritti umani e la crescita economica e sociale. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno cioè la possibilità di mettere in atto una politica coerente con gli obiettivi e i principi da loro proclamati.
Non mi illudo che questo cambiamento di politica sia facile e nemmeno penso che possa essere rapido. Non posso infatti nascondere il mio disappunto nel vedere come di fatto i ragazzi del Cairo e di Tunisi siano stati abbandonati a se stessi e si trovino oggi in condizioni ancora più disperate di quelle che li spinsero in piazza a protestare contro la corruzione e l’oppressione dei regimi ma, soprattutto, contro le drammatiche condizioni di vita di una generazione ormai fornita di un elevato livello di istruzione ma senza alcuna prospettiva di trovare un lavoro.
Su questa linea non abbiamo fatto nulla. Si sono indirizzate risorse enormi verso gli sforzi militari in Afghanistan, Iraq e, più recentemente, in Libia ma non si è convocata alcuna conferenza internazionale per offrire un futuro a coloro che, seguendo i nostri insegnamenti, hanno cercato di cambiare le cose nei loro paesi. Almeno noi italiani dovremmo riflettere sul fatto che prima della “nuova primavera” quasi nessun tunisino era così disperato da cercare una rischiosa fuga nel nostro paese e che se questo avviene oggi è perché la miseria e la disoccupazione sono ulteriormente aumentate fino a spingere a gesti disperati.
Mi auguro solo che la conclusione della vicenda di bin Laden sia lo stimolo perché gli americani possano permettersi di pensare al futuro e non al passato dei loro rapporti col mondo islamico e mi auguro che, anche in questa nuova fase, possano trascinare in questa direzione i riluttanti e divisi paesi europei. Con un poco di esagerazione (ma non tantissima) è stato autorevolmente affermato che i conflitti del passato hanno procurato all’Occidente l’ostilità di un miliardo di mussulmani e che questo è per noi un peso politico ed economico insopportabile.
Ebbene è venuto il momento di dirottare una parte crescente delle risorse finora dedicate alla guerra verso lo sviluppo di coloro che hanno faticosamente iniziato il cammino della democrazia e che saranno presto obbligati ad abbandonarlo a causa delle crescenti condizioni di miseria e disperazione in cui si trovano. E’ l’unico modo per non parlare a vanvera di democrazia e per diminuire il numero dei disperati che sbarcano sulle nostre coste. La fine di bin Laden ci può davvero aiutare a cambiare in meglio la direzione della nostra politica. Attenzione però che fra pochi mesi potrebbe essere troppo tardi.