I drammatici avvenimenti di questi giorni ci aprano gli occhi: rischiamo il fallimento del Paese

La crisi economica

Il debito, la spesa pubblica e la formica

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 luglio 2011

Per oltre un anno, anche in piena tempesta, ci siamo raccontati che la crisi dell’euro non avrebbe toccato l’Italia. In fondo il deficit era cresciuto in linea coi Paesi più forti, le banche erano solide, e il debito sarebbe ritornato a calare in rapporto a un Pil in lenta ma duratura crescita. In realtà è bastato che venissero allo scoperto la fragilità politica di questo governo e la sua endemica tendenza a rinviare le decisioni più impegnative per far crollare questo racconto.

Di fronte al silenzio e alla debolezza del governo gli assalti sono diventati furibondi. Il risorgere di un minimo di coesione, soprattutto in conseguenza degli ammonimenti del Presidente della Repubblica, sembra avere per ora calmato i mercati finanziari. Dobbiamo però rassegnarci al fatto che, non essendo nè americani nè giapponesi, saremo ancora sotto tiro, avendo un debito pubblico pari al 120% del nostro Prodotto nazionale lordo. Anche in presenza di bassi tassi di interesse questa zavorra impedisce la crescita, indebolisce le nostre strutture produttive, rende precario il nostro futuro e ci espone a ogni ondata speculativa.

Per metterci definitivamente in sicurezza vi sono solo due vie. La via più semplice, e cioè l’applicazione di una imposta patrimoniale abbastanza pesante da mettere i conti in ordine, non sembra politicamente praticabile. Non resta quindi che una seconda strada, quella di adottare la politica della formica, controllando in modo inflessibile la spesa pubblica e erodendo anno per anno il peso del debito. Ed è proprio quello che non è avvenuto nemmeno nei lunghi anni di bassi tassi di interesse di cui abbiamo potuto beneficiare dopo l’entrata nell’euro.

I dati contabili del passato decennio sono impressionanti. Le spese correnti (esclusi cioè gli investimenti sempre stagnanti) sono passate da 444 miliardi di euro nel 2000 a 670 miliardi nel 2010. I 226 miliardi in più sono pari a una crescita superiore al 50%. Si tratta di oltre 20 miliardi all’anno di spesa aggiuntiva, metà dei quali dovuti all’inflazione ma metà imputabili ad un aumento netto della spesa corrente. Fatta eccezione per il biennio 2007-2008, la spesa pubblica è sempre cresciuta in maniera sensibilmente più elevata rispetto al Prodotto nazionale lordo.

Quest’aumento non ha risparmiato nessuno dei grandi settori dell’amministrazione pubblica: non gli enti previdenziali, non l’amministrazione centrale e ancora meno gli enti locali, anche se a loro parziale giustificazione soccorre il fatto che, nell’ultimo decennio hanno dovuto assumersi il peso di qualche nuova funzione aggiuntiva. Il fatto vero è che la spesa pubblica è stata nell’ultimo decennio, assolutamente fuori controllo. Anche all’interno dei diversi settori sono accaduti fenomeni davvero incomprensibili come nel settore pensionistico in cui sono enormemente cresciute (dall’11,56% del 2000 al 22,7% del 2008) le pensioni al di sotto dei 500 euro e dal 18,8 al 22,7% le pensioni oltre i 2000 euro mensili, facendo di conseguenza crollare la fascia delle pensioni intermedia. Il tutto senza una razionale previsione delle cause di questi fenomeni.

Potremmo proseguire all’infinito con l’elenco delle anomalie e delle incongruenze ma queste poche osservazioni sono sufficienti per sottolineare che non si può porre rimedio a questo stato di disordine con i tagli lineari della spesa, ma solo analizzando tutte le voci di spesa, allo scopo di eliminare sprechi, disfunzioni e iniquità. Bisogna cioè operare col microscopio e col cacciavite. In termini più colti questo significa mettere subito in piedi una commissione per la <<spending review>> munita di poteri straordinari e forte di una piena investitura da parte del governo. Mettere sotto crontrollo la spesa pubblica non è tuttavia solo un fatto tecnico. E’ un’operazione con profonde implicazioni politiche. Il processo di revisione della spesa deve perciò essere accompagnato dalle nessarie decisioni capaci di coinvolgere i responsabili della spesa stessa.

Sotto quest’aspetto abbiamo anche qualche esempio virtuoso, tra i quali emerge il Patto per la Salute, inaugurato dall’accordo fra governo e Regioni del settembre 2006. Esso, come si legge nell’ultimo rapporto della Corte dei Conti, ha consentito di contenere la dinamica della spesa corrente del Servizio sanitario nazionale che, in crescita nel periodo 2000-2005 ha un tasso medio annuo del 7,3%, ha fatto registrare nel triennio 2007-2009, un valore medio più contenuto, pari al 2,9%, dando inoltre inizio ai primi segnali di riduzione delle forti e ingiustificate differenze nei costi pro-capite fra le diverse Regioni. Conoscenza tecnica e volontà politica sono cioè gli ingredienti necessari per invertire la mostruosa crescita della spesa pubblica.

Se ben poco è stato fatto in passato spero almeno che i drammatici avvenimenti di questi giorni abbiano aperto gli occhi a tutti noi. Altrimenti saranno gli avvenimenti a imporci la patrimoniale più gravosa di tutte, cioè il fallimento del Paese.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
luglio 17, 2011
Italia