L’Europa aiuti a costruire la Pace in Nord Africa
In Medio Oriente
L’Europa ora deve costruire la Pace
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 23 settembre 2012
Ci mancavano gli eccessi grafici e cinematografici per rendere ancora più rischiosa la già difficile situazione della sponda sud del Mediterraneo. Le strade e le piazze si sono di nuovo infiammate non per chiedere libertà e democrazia ma per bruciare le bandiere americane e per lanciare ammonimenti e minacce agli Stati Uniti e ai loro alleati. Non è ancora possibile prevedere se questi disordini dureranno nel tempo e nemmeno se si estenderanno ad altri paesi. E’ invece certo che essi rendono più difficile la riorganizzazione dei paesi protagonisti della primavera araba.
La nazione che sembra meno soffrire per le immediate conseguenze di questi ultimi avvenimenti è forse l’Egitto, dove il Presidente Morsi prosegue nel suo disegno di rafforzare la parte più moderata dei Fratelli Mussulmani sotto la garanzia dell’Esercito, sempre potentissimo ma ora in mano a un gruppo di alti ufficiali disposti all’accordo coi nuovi governanti.
L’Egitto non sembra quindi cadere vittima di questi nuovi disordini, ma i suoi problemi sociali ed economici non accennano a migliorare. Gli egiziani dipendono sempre più dagli aiuti stranieri e gli americani si mostrano generosi, anche allo scopo di sostenere questo difficile nuovo equilibrio fra democrazia, islamismo ed esercito.
Un equilibrio che è oggi insidiato non solo dalla miseria e dalle disparità sociali ma anche dalla quantità di armi e di uomini armati provenienti dalla vicina Libia, contro i quali la polizia e l’esercito egiziano sono costretti ogni giorno a misurarsi.
Non è un caso che gli incidenti maggiori di questi ultimi giorni si siano verificati in Libia, che sta diventando il paese più esplosivo e pericoloso di tutta l’area. La fragile unità fra Tripolitania e Cirenaica si è inesorabilmente spezzata. Bengasi, centro della nuova violenza, è oggi una città fuori controllo. Perfino la Croce Rossa, che aveva potuto operare perfino durante i momenti più tragici della guerra dello scorso anno, ha dovuto abbandonare la città in cui dominano bande armate che non obbediscono ad alcun legittimo potere. Il resto del paese è in mano a veri e propri gruppi paramilitari e gli stranieri, ormai privi di ogni garanzia, pensano solo a partire. L’autorità politica esercita un effettivo controllo limitatamente alla città di Tripoli e i governanti appaiono fragili e lontani, anche perché la maggior parte di essi è vissuta per molti decenni fuori dalla Libia, senza la possibilità di mantenere sistematici contatti col proprio paese.
Il governo in carica ha espresso in maniera inequivocabile il suo rammarico per l’uccisione dell’ambasciatore americano ma sembra in grado di fare ben poco di fronte agli episodi di violenza che ormai infiammano tutto il paese. Quando qualche anno fa vi furono manifestazioni contro il consolato italiano di Bengasi, come ritorsione per la maglietta insultante nei confronti di Maometto provocatoriamente indossata in pubblico dal ministro Calderoli, il governo di Gheddafi dimostrò di essere capace di organizzare la violenza popolare ma anche di fermarla in tempo. Oggi invece la violenza è incontrollata e, tra i violenti appartenenti a diversi gruppi, vi sono con certezza elementi addestrati in Afghanistan da movimenti terroristici legati ad Al Qaida. Il paese in cui nelle elezioni svolte nel recente mese di luglio le forze moderate e filo occidentali avevano vinto il confronto con i partiti islamici non sembra essere in grado di ricostruire le strutture statuali e, forse, nemmeno di controllare i processi scissionistici della Cirenaica e della regione meridionale del Fezzan, anch’essa dominata da bande armate.
Le conseguenze destabilizzanti del caos libico non sono soltanto all’interno del paese ma si stanno pericolosamente estendendo alle nazioni confinanti. Non solo i Tuareg, non più sostenuti dagli aiuti di Gheddafi, si scontrano con il mondo arabo circostante ma la rottura dei precedenti equilibri politici e il flusso ormai incontrollato di armi e droga stanno mettendo a dura prova le già fragili strutture statuali dei paesi vicini. Traffici illeciti e infiltrazioni terroristiche portano crescenti tensioni nel Ciad, nel Mali, nel Niger e toccano pericolosamente i territori dell’Algeria meridionale, del Sudan e, come ricordato in precedenza, del deserto egiziano.
Per ora, salvo incidenti temporanei, rimane funzionante la produzione petrolifera e quindi rimane quasi intatto il flusso delle risorse necessarie per il mantenimento di un paese che deve tutto importare, compresa la grande parte delle risorse alimentari necessarie per la sua sopravvivenza. La Libia ha quindi più bisogno di normalità che di aiuti economici ma, dopo la spasmodica attenzione americana per l’uccisione del suo ambasciatore, non vediamo alcuno sforzo sistemico per aiutare lo sviluppo della sua organizzazione statuale. Non vediamo soprattutto alcun impegno da parte europea, pur essendo la Libia un vicino così prossimo e così importante. Spero solo che non si debba concludere che i paesi europei sono solo in grado di fare la guerra e non di aiutare la costruzione della pace.