Rimettiamo al centro la politica industriale per non perdere la possibile ripresa
Ripresa fragile. Rimettiamo al centro la politica industriale.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 agosto 2013
Da qualche settimana si sente parlare con sempre più insistenza di ripresa. Abbiamo una serie di indicatori che ci dicono che il peggio è forse passato. Vi sono settori nei quali la cupa discesa si e’ arrestata o, almeno, ha rallentato la sua velocità. Vi sono soprattutto segnali di minore pessimismo nelle previsioni degli operatori economici. Anche questo ha la sua importanza. Tuttavia non sono ancora certo che tutto questo significhi davvero l’inizio di una ripresa o sia solo un piccolo sussulto dovuto soprattutto alla necessità di riportare un po’ di scorte nei magazzini, divenuti sempre più vuoti con il progredire della crisi.
Il piccolo risveglio dell’economia europea e americana apre indubbiamente un sipario di speranza, anche se esso è accompagnato da segni di minor dinamismo nei paesi che hanno negli scorsi anni guidato lo sviluppo dell’economia mondiale, come Cina, Brasile, India e Turchia.
Non vi sono inoltre segni di ripresa dell’occupazione, che costituisce il vero segnale del cambiamento del ciclo economico.
In assenza di una svolta radicale della politica di eccessiva austerità dettata dalla Germania prendiamo comunque atto dei pur modesti effetti dei progressi dell’economia europea annunciati in questi ultimi giorni.
Tuttavia il rafforzamento del nostro sistema economico deve per forza appoggiarsi anche su una ripresa dei consumi interni, ancora in calo o al massimo in fase di stagnazione. Un piccolo respiro è certo prodotto dalle recenti decisioni del governo volte ad incentivare l’acquisto di beni d’arredamento e ad accelerare i pagamenti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle imprese. Tuttavia il fatto che, dopo sei trimestri di continua caduta, le ultime previsioni europee segnino un piccolo segno positivo mentre quelle italiane continuino a presentarci il segno meno, è dovuto sostanzialmente alla debolezza dei nostri consumi. Le esportazioni hanno fatto il loro dovere anche se saranno ancora in futuro chiamate a sostenere la nostra economia.
Se la crescita dei consumi è necessaria, dobbiamo tuttavia pensare a quali consumi cresceranno e quali saranno invece in diminuzione. Questi anni di crisi, di mutamenti strutturali, di progresso economico e di cambiamento dei gusti hanno trasformato il mondo e i futuri consumi non saranno come quelli passati.
Soprattutto nei giovani, ma non solo tra di loro, diminuiranno molti consumi nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento e di molti altri prodotti tradizionali, mentre cresceranno gli acquisti dei beni legati all’informazione e alla comunicazione, alla cura della persona e alla salute.
Se esaminiamo le nostre strutture produttive troviamo che molti di questi nuovi beni o servizi non trovano origine dal nostro paese ma debbono essere importati. Non può sfuggire a nessuno il fatto che, prendendo in esame le innovazioni più di successo degli ultimi trent’anni nei nuovi settori, esse non siano mai state prodotte e non siano tuttora prodotte in Italia. Dai computer ai telefoni portatili fino agli infiniti prodotti ad essi correlati, sempre più dipendiamo da tecnologie straniere. Non solo nei beni ma anche nei servizi: pensiamo che quando passiamo dalla lettura dei giornali sulla carta stampata all’edizione elettronica, il trenta per cento del costo del nostro abbonamento entra nelle casse dei fornitori di software e prende perciò la via degli Stati Uniti. Un caso analogo riguarda i consumi di lusso: è vero che essi sono fabbricati in Italia in grande quantità ma molta parte del loro valore aggiunto si dirige verso le imprese straniere che hanno acquistato le nostre aziende e ne incassano perciò i margini commerciali e i profitti, in generale assai superiori ai ricavi che vanno alla produzione.
Se poi passiamo dai nuovi consumi a quelli più tradizionali come l’automobile troviamo altri motivi di preoccupazione.
Anche se difficilmente raggiungerà i livelli del passato ( perché anche in questo campo le abitudini sono cambiate) la domanda di automobili crescerà con la ripresa, trovando però una situazione totalmente diversa da quella passata. La produzione nazionale copre molto meno di un terzo della nostra domanda: produrremo quest’anno quattrocentomila vetture, meno di un terzo del nostro consumo interno. Eravamo tra i grandi produttori europei e ora nascono nei nostri stabilimenti un quinto delle vetture che escono dalle catene di montaggio della Spagna o della Gran Bretagna. Un’involuzione impressionante per un settore che rimane ancora vitale per gli equilibri di ogni sistema economico, come dimostra l’enorme sforzo del governo americano dedicato a raddrizzare i malconci fabbricanti locali.
Una ripresa dei consumi in queste condizioni rimetterebbe in crisi la nostra bilancia commerciale e metterebbe quindi a rischio ogni possibilità della stabile crescita di cui abbiamo bisogno per porre rimedio a tutti i nostri guai.
Cominciamo quindi subito a indirizzare risorse verso la ricerca e lo sviluppo e verso la formazione tecnica, con tangibili aiuti alle strutture di insegnamento e agli allievi che le frequentano. Prepariamo incentivi per la fusione tra le piccole e medie imprese. Ricostruiamo le strutture finanziarie pubbliche e private per farle crescere e conquistare i mercati esteri. Demoliamo gli ostacoli burocratici e l’incertezza del diritto che fanno fuggire gli investimenti stranieri dal nostro territorio.
Rimettiamo cioè la politica industriale al centro dell’azione del governo e del paese. Altrimenti continueremo a lamentarci di essere il fanalino di coda del nostro continente. Non è infatti scontato che la nave della possibile ripresa europea accolga a bordo tutti i passeggeri.