La leadership al tempo dei sondaggi
Democrazia e scelte/ L’esercizio del potere e l’offensiva del rinvio
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 4 settembre 2013
Rinviare le decisioni più delicate è sempre stato uno degli strumenti più utilizzati dalla politica. Non è un fatto sorprendente perché ogni decisione è un salto nel vuoto e quando si salta nel vuoto è assai facile farsi male. Mi sembra però che oggi questa tendenza sia diventata una regola sia nella politica nazionale che in quella internazionale.
In alcuni casi, come sta avvenendo da molto tempo in Italia, la spiegazione è abbastanza facile perché la fragilità dei governi e la complessità delle coalizioni rende il percorso delle decisioni lungo e difficile. Comprare tempo permette in questi casi l’adempimento di lunghi processi di chiarimento e di mediazione, processi sempre complessi ma comunque necessari per arrivare a una decisione condivisa dalla maggioranza degli attori politici.
Per questo motivo in tutti i sistemi democratici si è cercato di costruire sistemi elettorali che obbligassero gli elettori a scelte tali da aiutare la formazione di maggioranze parlamentari forti e stabili, in modo da rendere più facili e rapide le scelte, soprattutto attraverso il rafforzamento dell’esecutivo.
Nelle ultime settimane assistiamo tuttavia a qualcosa di nuovo, e cioè alla rinuncia all’esercizio del potere da parte di chi ne ha la forza e il mandato, anche nei paesi in cui quest’esercizio del potere è profondamente radicato nella tradizione e nello spirito del popolo.
Per essere concreto, sono stato fortemente sorpreso che, negli Stati Uniti e in Francia, il presidente, che questi poteri possiede in modo indiscusso, abbia trasferito al parlamento la responsabilità della decisione più delicata degli ultimi anni, cioè la decisione sull’intervento militare in Siria.
Personalmente non sono certo scontento del rinvio, anche perché penso che quest’intervento sia sbagliato e, a somiglianza di quanto è avvenuto in Iraq, Afghanistan e Libia, conduca a tragedie e sofferenze umane ancora maggiori. Mi auguro perciò, anche se con scarse speranze, che questi giorni di riflessione servano alla preparazione di strategie alternative alla guerra che pochi giorni fa sembrava inevitabile.
Non posso però esimermi dal cercare di riflettere sul perché di questa rinuncia al l’esercizio del potere da parte di chi ne è investito in modo indiscusso e quasi sacrale.
L’interpretazione più comune è in un riconquistato ruolo del parlamento nei confronti dell’ esecutivo: non credo che questa sia una spiegazione esauriente e forse nemmeno soddisfacente.
Penso invece che questa ritirata del potere esecutivo sia dovuta ai mutamenti dei rapporti fra potere politico ed opinione pubblica, mutamenti che stanno trasformando la natura e i comportamenti di tutti i sistemi democratici.
Nella democrazia di oggi l’opinione del popolo sovrano non si esprime infatti soltanto o principalmente nei momenti elettorali ma, attraverso l’invasione degli opinion polls e delle continue indagini demoscopiche, irrompe ogni giorno in tutte le decisioni, da quelle più insignificanti a quelle più importanti. Si tratta di un nuovo grande strumento che sta trasformando quasi ovunque i leader ( cioè quelli che debbono condurre) in
followers ( cioè quelli che sono costretti a seguire ). Stiamo rapidamente camminando verso una democrazia barometrica, nella quale chi detiene il potere si limita sempre più a comportarsi secondo il rilevamento degli umori istantanei dell’opinione pubblica.
Fino a quando avveniva nelle democrazie fragili, il problema veniva liquidato richiamando semplicemente la necessità di riforme che adeguassero le forme di governo ai sistemi democratici più robusti. Quando questo avviene nelle democrazie forti e riguarda le decisioni più delicate e più gravide di conseguenze, siamo obbligati a riflettere sulle conseguenze profonde che tutto ciò comporta nei confronti delle fondamenta stesse del sistema democratico.
L’opinione pubblica, soprattutto di fronte a eventi di forte impatto emozionale, viene per definizione guidata dall’emozione. Viene cioè condotta a riflettere solo su quello che avviene oggi e non sulle conseguenze che ne conseguiranno domani.
In questo modo la democrazia accorcia sempre i propri orizzonti e cerca di rinviare il più possibile le decisioni di fondo.
Rinvia le decisioni la Cancelliera tedesca quando impone un’austerità che danneggia la Germania nel lungo periodo ma piace agli elettori nel breve, rinvia e allontana da sè le decisioni Obama perché l’opinione pubblica gli ricorda gli esiti delle guerre precedenti, toglie l’IMU il nostro governo ma è costretto a prendere tempo in modo da scrutare le reazioni dell’opinione pubblica per le imposte che la debbono evidentemente sostituire.
Di fronte al contrasto fra l’opinione pubblica, che pensa a breve, e gli interessi permanenti del paese, comprare tempo rimane l’unico strumento a disposizione.
Tutto questo è comprensibile perché, come diceva il primo ministro lussemburghese Juncker, il buon politico sa sempre che decisioni prendere ma non sa però come vincere le elezioni successive.
Non dobbiamo quindi stupirci se, di fronte a questo dilemma, il rinvio diventa l’arma più praticata.
Non dobbiamo tuttavia nemmeno stupirci che quest’evoluzione indebolisca fortemente le nostre democrazie e le faccia oggetto di irrisione anche da parte di paesi molto più deboli e molto più arretrati.
Le democrazie hanno progredito nel mondo perché sono state capaci di affrontare e risolvere i grandi problemi di lungo periodo delle nostre società. Oggi questa stessa sfida si propone in modo molto più complesso perché la voce quotidiana dell’opinione pubblica è una realtà forte e insopprimibile non deve essere tale da rendere impossibili le decisioni se non con un continuo rinvio che uccide la stessa democrazia. Ripensare al rapporto fra elettori e potere diventa quindi urgente, per non trasformare la democrazia in un barometro che segna l’andamento delle pressioni ma non riesce a regolarle.