Berlusconi ha dato un contributo essenziale all’anomalia italiana. Ora c’è la speranza che la marea risalga
Prodi: «La nostra Italia era un miracolo. Ora spero solo che la marea risalga»
Intervista di Armando Nanni a Romano Prodi su il Corriere di Bologna del 3 ottobre 2013
L’ex premier ricorda Nino Andreatta: diceva che l’euro ci avrebbe cambiati. Invece… «Il Quirinale? Non ci ripenso mai»
BOLOGNA – È martedì sera, 1 ottobre, al numero 140 di via Santo Stefano, nell’ufficio della Fondazione per la collaborazione tra i popoli. Romano Prodi, mentre va a sedersi alla scrivania, sorride e dice: «Uhm… forse il quadro politico si va chiarendo…». Già, il giorno dopo questa chiacchierata, ieri, Berlusconi si è arreso al voto di fiducia per il governo Letta, il Pdl è arrivato a una drammatica spaccatura.
Prodi accetta l’intervista per parlare del suo maestro, Beniamino Andreatta, e nel farlo traccia un confronto tra l’Italia di oggi e quella che poteva essere e non è stata, quella dell’economista trentino scomparso nel 2007 dopo quasi 7 anni di coma, il consigliere economico di Aldo Moro e più volte ministro con la Dc oltre che nel primo governo Prodi dal 1996 al ’98. Oggi pomeriggio, all’Archiginnasio, l’ex presidente del consiglio ricorderà Andreatta alla presentazione del libro Un economista eclettico di Alberto Quadrio Curzio e Claudia Rotondi. Sul Corriere della sera di mercoledì, in un articolo di Alan Friedman, ha raccontato, per la prima volta, come andò il 19 aprile quando Massimo D’Alema e 101 franchi tiratori sbarrarono a Prodi la strada verso il Quirinale.
Professore, qual è il suo primo pensiero riguardo ad Andreatta?
«In questi giorni ho spesso pensato che se ci fosse stato lui, se in tutti questi anni ci fosse stato lui, certamente il dibattito politico avrebbe avuto un contenuto più forte, più rigoroso. Il suo modo diretto di affrontare problemi avrebbe insegnato ad avere più coraggio».
Più coraggio su quale fronte: economico, politico, istituzionale, nei partiti, nel centrosinistra?
«Mah, su tutto direi. Certamente, da economista, il suo contributo sarebbe stato essenzialmente su quel fronte, ma ci avrebbe insegnato ad avere molto più coraggio anche sulle riforme istituzionali. Poi avrebbe aiutato il processo decisionale nel Pd. Diciamo che ne avrebbe accentuato la velocità decisionale».
Vuol dire che il Pd sarebbe diverso, meno incompiuto?
«Non dico questo, nessuno può prevedere… Però di fronte ai problemi Andreatta aveva il coraggio della provocazione intellettuale, obbligava ad arrivare a un sì o a un no. Avrebbe sicuramente aumentato il livello di tensione nel dibattito e, così, avvicinato il risultato».
Un risultato che oggi avrebbe anche potuto chiamarsi Matteo Renzi?
«Non ho la minima idea di come si sarebbe potuto svolgere un colloquio fra due persone come loro perché Andreatta valutava molto il rapporto personale: andava d’accordo con persone con cui, in teoria poteva, essere in disaccordo e viceversa, non potevi farti uno schema a priori. Una personalità veramente forte».
Chi, oggi, come lui? Lungo silenzio…
«Eredi diretti non ne ha avuti, c’è stata una vera cesura nella storia del centrosinistra italiano».
Il silenzio si prolunga. Avrebbe potuto puntare al Quirinale?
«Di sicuro i numeri li aveva tutti, ma avrebbe trovato forti ostacoli in Parlamento proprio perché non era un uomo capace di dare la priorità alla mediazione».
Molto simile al suo 19 aprile di quest’anno. In 101 l’hanno pensata così.
«Può darsi, ma non pensavo proprio a questo. Ero estraneo a quel processo. Davvero, non ci ripenso mai. Non l’ho vissuto in modo emotivo: ero in Mali, lontanissimo, vedevo quella cosa come se riguardasse un’altra persona».
E dopo, oggi? Il rapporto con il partito?
«A questo punto non parlo – sorride – torniamo ad Andreatta».
Sì, ma la tessera del Pd? Ci ha ripensato, l’ha presa alla fine?
«No».
Nel suo discorso di insediamento al governo, Letta aveva citato Andreatta («Ho imparato da lui la fondamentale distinzione tra politica e politiche») e recentemente, presentando il libro di cui discuterete oggi all’Archiginnasio, l’ha definito «L’uomo delle scelte». Forse lui è l’erede?
«Andreatta considerava davvero Enrico Letta una promessa del futuro e Letta considerava Andreatta non un maestro, ma IL maestro. Non esagero. Nino era un europeista forte, soprattutto riteneva che la disciplina europea avrebbe cambiato il nostro Paese, pensava che quella fosse l’unica forza che avrebbe potuto cambiare l’Italia».
Ma non l’ha cambiata.
«Già, non è stato così. O lo è stato solo in parte».
Cosa non ha funzionato?
«Siamo mancati noi. Gli italiani».
Professore, avrebbe mai immaginato l’Italia di questi giorni?
«Certe cose non non si prevedono mai anche perché vivo sempre con la speranza che, improvvisamente, la marea risalga. Nel 1963, quando diventai assistente di Andreatta, avevamo davanti un’Italia in cui si sarebbe potuto fare tutto. Pensavamo che la nostra ascesa, come Paese, sarebbe stata lunga e irresistibile e che il riformismo, il cambiamento politico, cioè il centrosinistra, avrebbero potuto avere continuità e basi più ampie per quello che veniva chiamato il miracolo italiano. Non si prevedeva la caduta e mi auguro che così come oggi non si riesce a prevedere la resurrezione, questa poi avvenga».
Molto pessimista…
«Da troppo tempo rappresentiamo un’anomalia negativa in un mondo che cambia, che cresce».
Un’anomalia, dal suo punto di vista, che contempla anche Berlusconi?
«C’è qualcosa di molto più profondo ma è lecito porsi l’interrogativo se Berlusconi non abbia dato a questo qualcosa un contributo essenziale».
Andreatta, per stare agli slogan di questi giorni, era un italiano o diversamente italiano?
«Diversamente italiano. Era un trentino che veniva da una famiglia con una profonda influenza germanica. Ripeto, sarebbe stato divisivo, ma in questi momenti storici in cui c’è molto bisogno di verità quella è probabilmente una virtù».
Il professor Quadrio Curzio, parlando di quegli anni a Bologna quando con Andreatta nascevano l’Istituto di Scienze Economiche, Prometeia o l’Arel, li ha definiti magici.
«Anni magici. Non voglio fare retorica ma furono anni di una tale ricchezza intellettuale, di libertà, di apertura verso il mondo. Bologna diventava la città di Nomisma e Prometeia e i necessari rapporti tra università e società civile erano alimentati in modo naturale. Poi l’incanto è svanito. Le cose create allora continuano, ma in città si è rotto un meccanismo, si è rotto il meccanismo dell’autostima».
E allora che Bologna vede?
«Io resto sempre impressionato dalle piccole cose. E mi impressiona come la città sia ossessionata dal mettere tutto in negativo, anche le cose belle come la stazione sotterranea dell’Alta velocità. A Bologna ci si piange addosso anche quando si fanno le cose migliori. Lo spirito creativo esige sì un forte spirito critico, ma deve saperlo fare convivere in modo costruttivo con i pregi e con i difetti. Invece noi isoliamo sempre e solo gli aspetti negativi e li mettiamo al centro di tutto. Non sono le risorse materiali a frenarci, ma proprio la perdita di identità collettiva. Non riusciamo neanche più a identificarci nella stazione, che è sempre stata un punto di riferimento».
Di cosa parlerà oggi all’Archiginnasio?
«Parlerò degli aspetti economici, si discute di Andreatta come economista, non potrò non toccare solo la politica come abbiamo fatto in queste parole. Farò riferimento al modo in cui affrontava ogni problema economico seguendo le capacità intellettuali, ma anche un modo di procedere istintivo. Quindi parlerò soprattutto del modo in cui ci comunicava l’economia, stavo per dire insegnava ma la parola giusta è provocava: Andreatta provocava le nostre reazioni più che dettarci nozioni, questa era l’Università. Credo sia stato uno degli ultimi periodi in cui negli istituti universitari si pascolava, si impiegava e si perdeva tempo, non si avevano orari o agende rigide. Un disordine assolutamente creativo, proprio quello di un economista eclettico».