Risolvere l’emergenza in Libia: l’unica via per fermare l’esodo di chi fugge da fame e guerra
La tragedia dei migranti e l’inferno della Libia
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 27 luglio 2014
Gli arrivi dei migranti sulle nostre coste aumentano ad un ritmo impressionante. Si potrebbero accumulare statistiche su statistiche ma basta ricordare alcuni dati (già sottolineati sul Messaggero del 24 luglio da Marco Ventura) per capire a che punto siamo arrivati e dove stiamo andando. Nel 2012 sono sbarcati in Italia 13.267 migranti. Essi sono saliti a 42.925 nel 2013 ma sono già più di ottantamila oggi e si pensa arriveranno oltre i 120mila alla fine di agosto.
Questi migranti per la metà si dichiarano cittadini dell’Eritrea e della Siria e fuggono dalla guerra civile o dall’oppressione politica. L’altra metà è composta di disperati che provengono da situazione di tragica povertà e di insicurezza, con una crescente presenza di cittadini dei Paesi che stanno sotto il Sahara, come Mali, Nigeria o Gambia.
La quasi totalità di costoro arriva dopo essersi imbarcata in Libia, dove la vicinanza geografica all’Europa si unisce ad una situazione di un’assoluta mancanza di controllo da parte delle ormai inesistenti autorità di governo.
Pur essendo molto difficile fare previsioni sull’andamento dei flussi migratori futuri bisogna purtroppo concludere che le zone afflitte da guerre o tensioni non mostrano alcuna prospettiva di miglioramento e che i migranti provenienti dalla profonda Africa sono destinati ad aumentare per il combinato disposto del vorticoso aumento della popolazione e della consapevolezza che la fuga in Europa costituisce l’unica alternativa alla morte di fame o a condizioni di vita disumane.
In conseguenza dell’elevato tasso di natalità e della diminuzione della mortalità infantile, la popolazione dei Paesi del Sahel raddoppierà infatti in meno di venti anni.
Le situazioni di insicurezza, terribile eredità della guerra di Libia, hanno moltiplicato terrorismo e miseria, facendo dell’emigrazione l’unica risorsa possibile. Mi diceva poche settimane fa un sindaco di una piccola città del Sahel che la caduta della sicurezza, soprattutto nelle zone più periferiche, si accompagna ai furti di bestiame e all’evaporazione delle poche attività economiche esistenti. In questi casi le scarse risorse ancora disponibili vengono tutte indirizzate verso i viaggi della disperazione.
E’ evidente che l’unico modo per regolare questo fenomeno è quello di portare pace e sviluppo dove non ci sono ed è altrettanto evidente la debolezza dell’impegno europeo in questa direzione. Nonostante l’Unione Europea sia il maggior donatore verso l’Africa subsahariana non esiste un impegno politico collettivo. Ogni Paese agisce per conto suo e nelle aree di tradizionale presenza coloniale o di influenza politica: la Francia con i Paesi francofoni, la Gran Bretagna coi Paesi anglofoni mentre gli Stati Uniti operano soprattutto coi Paesi della costa dell’Ovest e con alcuni Paesi amici. Solo la Cina agisce a livello continentale, ma evitando tutti i possibili interventi di carattere politico che possano metterla in situazioni imbarazzanti. Una politica concordata di aiuto allo sviluppo avrebbe certamente un’efficacia positiva nel regolare i fenomeni migratori ma, per essere veramente efficace, dovrebbe essere accompagnata da una massiccia lotta contro il terrorismo e da un rafforzamento delle fragili strutture statuali deputate alla sicurezza e allo sviluppo.
Trascurando per ora coloro che fuggono da Iraq e Afghanistan, che in genere seguono la via dei Balcani, tutti gli altri migranti giungono in Europa non dalla Tunisia (che sarebbe il Paese geograficamente più vicino) ma dalla Libia, Paese senza governo e nel quale i trafficanti fanno sostanzialmente da padroni.
La Libia come luogo di fuga e non come Paese di migranti, perché tra i migranti non figura alcun cittadino libico.
E’ chiaro che il primo intervento efficace per evitare le quotidiane tragedie del mediterraneo dovrebbe essere dedicato alla ricostruzione delle strutture statuali libiche ma sembra che, dopo esserci impegnati in una guerra iniziata e terminata senza tenere conto delle conseguenze, nessuno ha il coraggio di occuparsi in modo attivo della Libia. Nessun serio tentativo per mettere attorno a un tavolo le diverse tribù, etnie e milizie che compongono il potere reale del Paese.
Le così dette grandi potenze, a cui l’Italia si è accodata con passione suicida, si sono accontentate di avere vinto la guerra e di essersi sbarazzate di un dittatore. Hanno trovato l’accordo per bombardare ma non lo cercano per pacificare.
E’ chiaro che una decente politica per la Libia non fermerebbe una spinta migratoria, che soprattutto nasce dalla nuova realtà del mondo, ma la renderebbe almeno più umana e gestibile. Non toglierebbe la necessità di un’azione comunitaria europea, non diminuirebbe la necessità di una politica coordinata di accoglienza, di strutture specializzate per la protezione dei minori e di una nuova regolamentazione delle regole di asilo.
Queste migrazioni bibliche vanno ben oltre il caso libico ma se vogliamo essere in grado di risolvere i problemi globali dobbiamo affrontare prima di tutto le situazioni di emergenza.
La Libia è ora la grande emergenza: essa sta diventando sempre più preda di gruppi terroristici in grado di controllare il territorio. Le vite dei migranti disperati sono forse il più potente strumento nelle loro mani. E’ ora che i Paesi europei si rendano conto che questo non è un problema solo italiano, che non è un problema di sola assistenza ma è il problema più grande e difficile che l’Europa deve affrontare.