Il riformismo in Europa ha fallito
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 14 agosto 2009
Il dibattito sulla crisi del riformismo in Europa ha tenuto banco per qualche settimana dopo le elezioni europee. Poi è sparito nel nulla senza aver prodotto alcun apparente risultato.
Lontano dalle polemiche elettorali e favoriti dalla quiete estiva conviene ritornare sull’argomento.
Che i partiti riformisti siano in profonda crisi non è contestabile: il centro-sinistra è stato sconfitto nella maggioranza dei paesi europei proprio durante una crisi economica che ha rivalutato molte delle proposte che erano tipiche di questi partiti.
Per spiegare questo paradosso conviene fare qualche passo indietro e ritornare al momento in cui, dopo un lungo periodo in cui la politica mondiale era stata dominata dal binomio Reagan- Thatcher, la situazione si rovesciò con la vittoria di Blair che sembrava in grado di cambiare i destini europei con il new labour, la terza via che avrebbe dovuto rinnovare il riformismo europeo e lo schema politico mondiale collegandosi con le novità che Clinton proponeva negli Stati Uniti.
Con un pizzico di esagerazione, ma anche per esaltare il ruolo italiano in questo processo, si era arrivati perfino a parlare di “ulivo mondiale“.
La causa della sconfitta di questa grande stagione è da individuare nel fatto che, mentre in teoria il nuovo labour e l’ulivo mondiale erano una fucina di novità, nella prassi di governo di Tony Blair e i governi che ad esso si erano ispirati si limitavano ad imitare le precedenti politiche dei conservatori inseguendone i contenuti e accontentandosi di un nuovo linguaggio.
Sul dominio assoluto dei mercati, sul peggioramento nella distribuzione dei redditi, sulle politiche europee, sul grande problema della pace e della guerra, sui diritti dei cittadini e sulle politiche fiscali le decisioni non si discostavano spesso da quelle precedenti. Il messaggio lanciato all’elettore era il più delle volte dedicato a dimostrare che il modo di governare sarebbe stato migliore.
Nel frattempo il cambiamento della società continuava secondo le linee precedenti: una crescente disparità nelle distribuzione dei redditi, un dominio assoluto e incontrastato del mercato, un diffuso disprezzo del ruolo dello Stato e dell’uso delle politiche fiscali, una presenza sempre più limitata degli interventi pubblici di carattere sociale.
Vent’anni fa una mia semplice osservazione che la differenza di remunerazione da uno a quaranta tra il direttore e gli operai di una stessa azienda era eccessiva, aveva causato scandali e discussioni a non finire. Oggi nessuno si stupisce del fatto che questa differenza sia in molti casi da uno a quattrocento. Durante il momento più acuto della presente crisi abbiamo assistito a una breve fase di sdegno nei confronti della remunerazione di alcuni dirigenti, ma poi tutto è stato dimenticato.
Come se vivessimo in una società immutabile, come se la realtà esistente e le convinzioni dell’opinione pubblica fossero così forti da non essere riformabili.
Il riformismo ha cioè perso la fiducia in se stesso e preferisce inseguire le piattaforme e i programmi degli altri, pensando che, per rovesciare le fortune elettorali, sia sufficiente criticare gli errori e i comportamenti dei governanti.
A cambiare gli equilibri politici tutto ciò non basta, anche perché la rapidità con cui gli “estremisti” del mercato si sono impadroniti del linguaggio dei riformisti è davvero degna di un premio Nobel. Per vincere i riformisti debbono elaborare nuove idee e nuovi progetti su tutti i temi elencati in precedenza. Ribadendo con forza il ruolo dello Stato come regolatore di un mercato finalmente pulito.
Approfondendo i modi e gli strumenti attraverso i quali i cittadini abbiano uguali prospettive di fronte alla vita. Rinnovando il funzionamento del sistema scolastico, della ricerca scientifica e del sistema sanitario. Ripensando al grande processo di superamento del nuovo nazionalismo politico ed economico con una forte adesione agli obiettivi di coesione europea e di solidarietà internazionale.
Non avendo paura di denunciare i tanti aspetti riguardo ai quali il capitalismo deve profondamente riformarsi. Non accontentandosi di mostrare un giorno la faccia feroce e il giorno dopo un viso sorridente verso gli immigrati, ma preparando una organica politica di legalità ed accoglienza.
Mi rendo conto che tutto ciò significa avere il coraggio di scontentare molti e aver la forza di scomporre e ricomporre il proprio elettorato.
Mi rendo conto che nessun politico affronta a cuor leggero questa azione di scomposizione e ricomposizione, ma mi rendo anche conto che la crisi economica sta cambiando percezioni e mentalità.
Essa rende più accettabili le proposte innovative e coraggiose che il centro-sinistra deve elaborare per essere ritenuto in grado di governare la nostra società. Un compito difficile, tutto in salita e, in una prima fase, addirittura contro corrente. Tuttavia chi non è capace di nuotare contro corrente non sarà mai in grado di risalire un fiume.