2017: se l’Europa non cambia, non facciamoci troppe illusioni
Se Bruxelles non cambia direzione addio ripresa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 dicembre 2016
Al termine di ogni anno è opportuno fare un riassunto di quanto è avvenuto nell’economia mondiale ma, soprattutto, è quasi d’obbligo cercare di prevedere con una certa ragionevolezza quello che probabilmente accadrà nel prossimo anno.
Quest’esercizio è oggi ritenuto dagli esperti meno complicato del solito perché i principali sistemi economici sembrano complessivamente procedere sulla stessa linea mantenuta nell’anno che si sta chiudendo. La crescita dell’economia del pianeta sarà ancora intorno al 3%, con uno sviluppo del 2% nei paesi più prosperi e con una crescita intorno al 4% nel mondo in via di sviluppo.
Ben poco di nuovo anche nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea: due punti e mezzo di crescita in USA e un punto in meno nel vecchio continente. Come il solito.
L’aumento del prezzo delle materie prime, a cominciare dal petrolio, non sarà infatti tale da portare grandi sconvolgimenti e i benefici derivanti dai minori squilibri fra i prezzi delle materie prime e quelli dei manufatti saranno vanificati dal modesto andamento del commercio internazionale che continuerà a svilupparsi meno della crescita dell’economia.
Passando dal quadro dell’economia reale a quello valutario, il dollaro continuerà ad essere forte, anche per la diversa politica dei tassi tra la Riserva Federale e la Banca Centrale Europea. Il che non è certo un danno per i paesi europei ma costituisce un problema serio per i molti paesi in via di sviluppo indebitati in dollari.
Quest’ipotesi di un futuro privo di novità sembra essere in contrasto con la vera e propria rivoluzione politica che si è avuta negli Stati Uniti con la vittoria di Trump e con il quadro delle incertezze dovute alle elezioni politiche che avranno luogo nei principali paesi europei: in marzo in Olanda, in maggio in Francia e, infine, in settembre in Germania. In questo fitto calendario resta naturalmente da attribuire una data per le elezioni italiane che, comunque, non andranno oltre la primavera del 2018.
Nei prossimi mesi andrà quindi al voto una quantità di cittadini europei che rappresenta oltre i due terzi del reddito dell’UE. Il tutto in una situazione di incertezza sul ruolo che i partiti anti- europei potranno ricoprire in futuro.
Nonostante questi sconvolgimenti politici le novità economiche saranno poche per diversi motivi. Prima di tutto la rivoluzione di Trump, ammesso che essa avvenga, non porterà effetti sensibili prima della fine del prossimo anno, data la lunghezza delle procedure di approvazione del bilancio e tenuto conto del fatto che le proposte di riduzioni fiscali per i privati e per le imprese e l’aumento degli investimenti pubblici sia nel campo delle infrastrutture che in quello della difesa provocherebbero un deficit aggiuntivo del bilancio federale pari ad oltre il 2%. Il che contrasta troppo con i principi di equilibrio di bilancio che, nonostante la rivoluzione di Trump, rimangono un principio-guida della maggioranza dei parlamentari del partito repubblicano.
Dimentichiamoci quindi del combinato disposto di una riduzione annua di 250 miliardi di imposte a carico delle famiglie e dei 150 miliardi di minori imposizioni per le imprese, a cui si dovrebbe aggiungere un incremento di spesa per le infrastrutture pari a 550 miliardi in dieci anni.
Dimentichiamoci dell’ipotesi di crescita fra il 3,5% e il 4% che Trump ha così vigorosamente sostenuto, tanto più se Trump metterà in atto le restrizioni alle importazioni che sono state una delle carte vincenti della sua campagna elettorale. Alle misure di restrizione delle importazioni si accompagnano sempre analoghe misure da parte dei paesi che vengono colpiti.
Anche nell’economia europea ci attendiamo ben poco di nuovo: le incertezze politiche rendono difficile ogni manovra espansiva dei consumi e degli investimenti mentre la pigrizia del commercio internazionale non giova certamente ad elevare il nostro ritmo di crescita. Quindi non andremo oltre l’1,5%, con un Italia che rimane nell’ultima parte del plotone di coda, piazzandosi al di sotto dell’1%.
Questo perché nel nostro paese la crescita dei consumi sarà molto modesta sia a causa della stagnazione dei salari sia per effetto di un ulteriore peggioramento della distribuzione dei redditi. Questo peggioramento porta infatti potere d’acquisto aggiuntivo alle categorie più ricche che, per definizione, hanno una quota di risparmio superiore e una quota di consumo inferiore rispetto alle classi più povere.
Anche per effetto dei recenti incentivi si potrà avere un leggero aumento negli investimenti, che rimarranno tuttavia ben lontani dalla punta raggiunta nel 2007, rendendo il nostro capitale sempre più obsoleto proprio quando si profila la necessità di avviarci verso la rivoluzione produttiva (comunemente chiamata 4.0) che tutti ritengono essere uno strumento indispensabile per la sopravvivenza del nostro sistema economico.
Tra gli esperti economici vi è chi aggiunge un ulteriore elemento di pessimismo, che deriva dall’incertezza sulla domanda futura di automobili, dato che l’andamento sostenuto di questo settore è stato uno degli elementi più importanti per evitare la caduta dell’economia europea nello scorso triennio. Analizzando i passati cicli del settore automobilistico non è sicuro che questo avvenga, anche se la domanda di questo settore non può certamente continuare a crescere all’infinito.
Questo è quindi il quadro che deriva da un’osservazione fredda e razionale degli elementi di conoscenza che abbiamo a disposizione. Mi auguro solo che sia troppo fredda e che la razionalità impiegata in quest’analisi venga smentita da un cambiamento della politica economica, soprattutto europea. Un cambiamento che da tanti anni invochiamo e che, fino ad ora, non è mai arrivato. La speranza è, comunque, l’ultima a morire.