Dieci anni fa l’Europa si allargava ad Est. Ora uno sforzo comune per trasformarla in una società veramente cosmopolita
Slovenija deset let v Evropski uniji
Articolo di Romano Prodi su Primorski del 1 maggio 2014
E’ diventato quasi di moda dimenticare o addirittura dare un significato negativo a quanto avvenne dieci anni fa, quando l’Unione Europea accolse in un solo giorno dieci nuovi membri, tra i quali ben otto paesi separati fino ad allora dalla cortina di ferro.
Fin dagli anni cinquanta era stato per me un autentico dolore assistere a separazioni e tensioni fra territori e popoli che avrebbero dovuto invece vivere e lavorare assieme. Per questo motivo, come Presidente della Commissione, avevo messo in primo piano l’allargamento dell’Unione e mi ero impegnato direttamente per una sua più rapida e veloce attuazione possibile. E ho fatto più volte la spola tra Zagabria e Lubiana per dire che, anche se la storia obbligava per il momento ad aprire le porte solo alla Slovenia, si apriva un processo che avrebbe finalmente pacificato tutta la ex-Jugoslavia e avrebbe cancellato per sempre le tragedie del passato. Non esagero quindi se scrivo che la notte in cui le frontiere tra Italia e Slovenia sono cadute è stato il momento più bello della mia non breve vita politica anche se credo, con altrettanta sincerità, di non aver mai preso tenta acqua sulla testa in vita mia come in quella notte tra le due Gorizie.
La commozione era proprio fondata sul fatto che ero sicuro che da quel momento in poi non si sarebbero più ripetute le tragedie che avevano insanguinato paesi a noi così cari e così vicini.
A dieci anni di distanza posso dire che quella commozione era ben fondata. La pace, con tutte le difficoltà del caso, ha progredito nella direzione giusta, anche se a un passo un poco più lento di quello che speravo. Ci sono voluti più anni del previsto per l’entrata della Croazia nell’Unione ma il cammino è definitivamente tracciato anche per la Serbia e per gli altri paesi circostanti.
Le difficoltà e i problemi non sono mancati così come non sono mancati i sussulti della politica e dell’economia perché, nel frattempo, è cambiato tutto il mondo, vicino e lontano da noi.
Nonostante questo, il cammino della collaborazione e dell’Unione non si fermerà e, pur con tutti i limiti che vediamo, siamo ora in una fase storica del tutto diversa e certamente migliore del passato.
Detto questo non possiamo accontentarci di guardare indietro dicendo che le cose vanno meglio perché, accanto alle grandi novità positive, non abbiamo saputo cogliere tutti i vantaggi che la nuova geografia politica poteva assicurarci.
Io avevo sognato che l’allargamento dell’Unione avrebbe segnato l’inizio di un nuovo ruolo per tutta l’area che sta tra Trieste, Capodistria e Fiume, sulla linea, anche se non con le stesse dimensioni quantitative, dei cambiamenti che sono avvenuti a Vienna, ora metropoli davvero cosmopolita.
La garanzia della pace, la caduta delle frontiere e la partecipazione comune ai progetti di Bruxelles non si sono invece trasformati in una azione corale, capace di trasformare la diversità in una nuova energia in grado di inserirsi con successo e originalità nel mondo globale. Abbiamo fatto finalmente calare il sipario sulle tragedie ma non abbiamo costruito quel nuovo che deve nascere quando diversi popoli iniziano ad operare insieme.
Anche se mi commuovo pensando al passato e a quanto abbiamo fatto per porre rimedio ad un disastro della storia voglio ripetere che non si può costruire il futuro solo voltandosi indietro.
Mi auguro quindi che il ricordo e la celebrazione di quanto avvenne dieci anni fa siano un’occasione per riesaminare tutte le forme di cooperazione e di innovazione che sono necessarie per costruire il futuro.
Abbiamo bisogno di mettere in comune le infrastrutture perché l’Adriatico (ad est e a ovest di Trieste) ritorni ad essere un’alternativa credibile ai porti del Nord Europa. Abbiamo bisogno di mettere insieme università e centri di ricerca capaci di attirare energie giovani da tutto il mondo. Avviamo bisogno di costruire un terreno fertile per un terziario superiore che viene solitamente attratto dalla qualità della vita e dei luoghi in cui abbiamo la fortuna di vivere.
Lo stare insieme non può essere ridotto a non farsi la guerra. Lo stare insieme vuole dire trarre vantaggio dalla diversità di storia, di lingua e di cultura per diventare una società sufficientemente cosmopolitica per attrarre energie nuove e creative.
Il ricordo del primo maggio del 2004 diventa quindi un augurio per nuove realizzazioni da celebrare con gioia condivisa il futuro primo gennaio del 2024.