Dopo il Covid: le decisioni indispensabili per agganciare la ripresa
Le aziende e il Paese: l’immagine da recuperare per la corsa della ripresa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 giugno 2021
Sta prendendo corpo un certo ottimismo sulla dimensione e sulla durata della ripresa della nostra economia, Covid permettendo. È opportuno quindi porsi il problema delle condizioni necessarie perché questo auspicabile evento possa concretizzarsi e, soprattutto, possa durare nel tempo.
Facile prevedere che questa prima spinta sarà certo aiutata dal risveglio dei mercati esteri ma, soprattutto, dall’aumento della domanda interna.
La lunga pandemia ha infatti compresso in modo senza precedenti i nostri consumi e, evento altrettanto senza precedenti, ha aumentato di ben 180 miliardi i risparmi giacenti nei depositi bancari che hanno in questo modo raggiunto l’incredibile somma di 1750 miliardi di Euro.
Il desiderio di recuperare, almeno in parte, i consumi arretrati e di spendere le maggiori disponibilità liquide, costituisce un’indubbia spinta per la ripresa, anche se non ne garantisce la durata.
Sappiamo bene che, per dare consistenza allo sviluppo, debbono infatti arrivare gli aiuti europei e sappiamo altrettanto bene che essi sono condizionati dalla messa in atto di una serie di riforme.
Non siamo invece ancora consapevoli delle decisioni che dobbiamo prendere per fronteggiare le trasformazioni e i cambiamenti che stanno avvenendo nell’economia mondiale.
Per agganciarci al nuovo, è ovviamente prioritaria la moltiplicazione degli investimenti nell’istruzione tecnica e nella ricerca. In secondo luogo è urgente riorganizzare il nostro sistema industriale, adottando provvedimenti in favore delle fusioni tra imprese e decisioni volte a facilitare il passaggio generazionale delle aziende.
Nelle riflessioni che seguono intendo tuttavia limitarmi a prendere in esame solo le politiche da adottare in conseguenza dei mutamenti della concorrenza mondiale, resi più veloci dalla pandemia.
Anche se non avverrà con la rapidità e le dimensioni che qualcuno prevedeva, è infatti cominciato un processo di riorganizzazione delle imprese, per effetto del quale alcune aziende riportano in patria investimenti fatti all’estero (il così detto reshoring) e altre cercano di distribuire i propri impianti produttivi in tutte e tre le grandi aree economiche (Stati Uniti, Europa e Cina) in modo da evitare i rischi e i danni di possibili tensioni politiche o di eventi imprevisti, come nel caso del Covid.
Nella prospettiva di questi cambiamenti, l’Italia deve prepararsi ad assumere un ruolo attivo non per rimpatriare produzioni di basso livello che, nel caso di un loro ritorno in Europa, si dirigerebbero ovviamente nei paesi a basso costo della mano d’opera, come la Romania o la Bulgaria.
Mi riferisco alle imprese ad alta e media tecnologia, dove possediamo le necessarie specializzazioni e abbiamo costi nettamente inferiori a quelli dei paesi che sono in concorrenza con noi nella stessa fascia di mercato.
Non vi è alcuna ragione economica per cui l’Intel o la Tesla decidano di costruire i loro nuovi impianti europei in Germania, dove il costo della mano d’opera specializzata è il doppio del nostro. L’unica spiegazione è la cattiva immagine del nostro paese a causa del cattivo funzionamento delle sue strutture pubbliche.
Un’immagine che sta certamente migliorando negli ultimi mesi, ma il miglioramento, per produrre i suoi effetti, deve essere accompagnato da una nuova politica. Per essere espliciti: non esiste solo la macroeconomia, ma anche la politica industriale, di cui oggi non vi è traccia.
Partiamo, a questo proposito, da una semplice constatazione: la produttività e i profitti delle imprese straniere che operano in Italia nei settori a media e alta tecnologia non sono mediamente inferiori rispetto ai rendimenti degli impianti che esse gestiscono negli altri paesi europei.
Nonostante questo, e nonostante la bilancia commerciale attiva, la nostra immagine è, almeno per quanto riguarda l’industria, assai peggiore della realtà, anche in conseguenza del fatto che ormai non abbiamo più alcuna grande impresa che possa definirsi italiana.
Di conseguenza, nessun rappresentante delle nostre imprese siede attorno ai tavoli dove i grandi protagonisti preparano gli accordi e le decisioni sulle strategie industriali, soprattutto nei settori che hanno un grande futuro, a partire dall’ambiente per arrivare ai nuovi sistemi di trasporto o di comunicazione.
Per rimediare a queste debolezze è quindi indispensabile apprestare una politica che, tenendo conto delle nostre potenzialità, definisca le priorità e prepari i progetti e gli incentivi per fare in modo che l’Italia partecipi in modo attivo alla nuova redistribuzione delle attività produttive. Ed è necessario che questa politica venga resa visibile e comunicata a livello europeo e globale.
Una politica dedicata a preparare progetti di alto livello e a offrire i massimi incentivi finanziari e fiscali compatibili con gli impegni europei. Una politica capace di imporre il rispetto dei tempi necessari per mettere in atto le decisioni di investimento.
Solo un forte coinvolgimento di tutto il paese può quindi inserirci nella nuova redistribuzione delle attività produttive, con le nostre caratteristiche e le nostre potenzialità.
Un progetto che deve comprendere il grande obiettivo di vedere come protagonista di questa nuova fase anche il Mezzogiorno.
Penso infatti che Bari, Napoli e Catania abbiano, in diversi settori, le potenzialità per essere parte attiva di questi grandi cambiamenti. A condizione che esista una politica nazionale in grado di partecipare alla progettazione del futuro e di preparare gli strumenti per renderlo possibile.