E’ il momento di reagire, o la dittatura di Google sarà totale
E’ il momento di reagire, o la dittatura di Google sarà totale
Articolo di Romano Prodi sullo speciale di fine anno de Il Messaggero di dicembre 2019
Siamo arrivati al termine di uno strano anno. Pieno di contraddizioni e di problemi irrisolti. Quindi un mare di incertezze per il futuro.
Nella politica mondiale continuano conflitti ormai eterni, senza colpi di scena ma senza prevedibili soluzioni. Le guerre infinite di Siria e di Libia sono ormai durate più della seconda guerra mondiale e non danno segni di terminare perché le grandi potenze vi giocano un ruolo sempre più importante, ma nessuna di esse sembra volere o sembra essere in grado di dare il colpo definitivo. I potenti del pianeta insistono a giocare col fuoco in modo indiretto: forniscono armi, arruolano truppe mercenarie o semplicemente inviano risorse finanziarie.
Il lento passaggio dal mondo monopolare ad un mondo controllato da più potenze regionali continua all’infinito perché la ridefinizione delle sfere di influenza e dei loro confini è un processo tanto complicato da non potersi mai considerare concluso. Un processo che continua a produrre un lunghissimo elenco di morti, feriti e rifugiati che, tuttavia, non sembra essere una ragione sufficiente per arrivare alla pace. Anche perché l’ONU conta sempre meno.
Con la stessa perversa tenacia prosegue il fenomeno del terrorismo. Controllato e provvisoriamente vinto in Medio Oriente, esso rispunta sempre più vigoroso e diffuso nei paesi a Sud del Sahara dove, oltre a provocare tragedie umane, annulla ogni possibilità di sviluppo economico delle regioni più povere del globo.
Tutto ciò sta producendo in noi la convinzione che non vi sia un’alternativa a questi lunghi processi di assestamento. Li riteniamo ormai fatti normali come il susseguirsi delle stagioni, anche se essi minano alla radice la nostra fiducia nei confronti di coloro che hanno in mano le redini della politica globale.
Un uguale senso di sfiducia ci pervade nel vedere come, nell’anno che volge al termine, sono stati gestiti i rapporti economici tra i diversi paesi. Ci stiamo rassegnando anche alle guerre commerciali e alle sanzioni economiche che, una volta iniziate, anch’esse non finiscono più. Da una globalizzazione spesso disordinata e ingiusta, ma che pure aveva ridotto la povertà di tante parti del mondo, si sta passando a chiusure e barriere che producono gli stessi danni e lo stesso senso di angoscia degli eterni conflitti regionali.
L’anno trascorso è stato anche l’anno della diffusione delle guerre tecnologiche. Non sono certo un fatto nuovo, ma le evoluzioni della scienza e della tecnologia le stanno estendendo in direzioni sempre più ampie. Non ci sono settori nei quali la necessaria attenzione a proteggere il proprio patrimonio intellettuale non si accompagni ad una crescente diffidenza nei confronti delle collaborazioni fra imprese e paesi. Collaborazioni che tanto hanno contribuito al progresso degli scorsi anni. La scienza diventa sempre meno strumento di unione e sempre più strumento di divisione.
In questo quadro ci si deve forse sorprendere come l’economia mondiale, pur ferita da questi eventi, dimostri solo un rallentamento e non entri in una di quelle gravi crisi che di solito si accompagnano ai periodi di incertezza.
Il sistema economico mondiale, che resiste nello stesso tempo non solo alle ingiustizie e alle disparità, ma anche alle follie dei governanti, è forse più forte di quanto non si era pensato in precedenza. Nell’anno che sta per finire si è registrato un enorme passo in avanti verso un cambiamento di potere più grande di ogni previsione. I padroni del mondo sono diventate le imprese che si fondano sui nuovi strumenti di connettività.
Il 2019 è l’anno che ha segnato la scomparsa definitiva dei giganti del petrolio e della manifattura nel novero delle più grandi imprese globali. Google, Apple, Facebook, Alibaba, Amazon e compagnia (tutte americane o cinesi) dettano legge agli Stati, costruendo un vero e proprio nuovo ordine internazionale.
Tutto questo ribollire di tensioni non può non produrre cambiamenti nelle forme di governo che regolano la vita delle nazioni. Ed è quello che è avvenuto. Di fronte alle paure e alle incertezze si è assistito ad un processo di crescente accentramento del potere. Dalle Filippine alla Cina, dall’India alla Russia, dalla Turchia agli Stati Uniti fino al Brasile, per non elencare tanti altri paesi, si è cercata una protezione nei confronti delle guerre, delle crisi o delle semplici paure, affidando sempre maggiore potere ai governi.
Purché esso ripari dalla pioggia, i popoli si mettono sotto qualunque ombrello.
Questa è la più insidiosa e generalizzata sfida che sia mai stata posta ai sitemi democratici ai quali ci sentiamo così profondamente legati. Per ora non vi sono segni di risveglio delle democrazie anche se, come ha sottolineato Tahar Ben Jelloun, il 2019 è stato l’anno in cui, per la prima volta, sono nati nel mondo grandi movimenti popolari senza un leader che li abbia promossi o li abbia guidati. Questa novità senza precedenti si è manifestata in Libano, ad Hong Kong, in Cile, in Francia con i Gilet gialli e, più recentemente, in Algeria. È questa una conseguenza delle tecnologie digitali o un segno di fermenti preparatori di nuove evoluzioni politiche? È impossibile dirlo oggi.
Quello che è certo è che nel corso del prossimo anno i sistemi democratici dovranno cominciare a mettere in atto un processo di rinnovamento che li renda capaci di affrontare con successo i cambiamenti politici, economici e tecnologici che hanno causato una così profonda crisi.
Solo il tempo ci dirà se saranno in grado di farlo. Per ora accontentiamoci di sperarlo e di augurarcelo.