I rischi per la democrazia: quando successo economico e prestigio nazionale valgono più dei diritti dei cittadini
Il filo che lega la Turchia con l’Europa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 agosto 2014
Quando un anno fa erano in corso le oceaniche manifestazioni antigovernative di Istanbul gli osservatori occidentali facevano gara a scrivere che, dopo undici anni di potere, la parabola del Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan era ormai al tramonto. Alle manifestazioni si è successivamente aggiunto un grande scandalo finanziario che ha toccato Erdogan nei suoi familiari e nei suoi collaboratori e che sta notevolmente indebolendo la forza del suo partito. Nonostante tutto ciò il Primo Ministro turco ha trionfalmente vinto le elezioni presidenziali che, per la prima volta, si sono svolte a suffragio universale.
Una vittoria senza riserve, con una maggioranza assoluta raggiunta al primo turno da un politico che, anche per la debolezza delle opposizioni, ha vinto nove consecutive tornate elettorali ed ha, in parallelo, continuamente aumentato il contenuto autoritario del suo Governo, provocando una crescente diffidenza nei suoi confronti da parte dei tradizionali alleati occidentali e tensioni fortissime con i suoi vicini di casa.
La prima spiegazione di questo ininterrotto successo si trova nelle parole pronunciate da Erdogan stesso nel “discorso dal balcone” subito dopo la vittoria, quando ha ricordato che il PIL turco è più che triplicato nei suoi dodici anni di governo, passando da 230 a 820 miliardi di dollari, garantendo quindi un crescente benessere ai 77 milioni di cittadini. A questa crescita interna si è aggiunta una montante presenza della Turchia nell’economia e nella politica di un’area sempre più vasta, che dai Balcani si estende fino agli sterminati Paesi dell’Asia Centrale.
Nello stesso discorso celebrativo Erdogan ha identificato se stesso come il simbolo di una Turchia che sta marciando e ancora marcerà dietro un’unica bandiera, forte di una comune storia e una comune identità. Queste sono le ragioni per cui Erdogan ha vinto le elezioni tanto nella Turchia profonda quanto (fatta esclusione di Smirne) nelle metropoli che avevano visto centinaia di migliaia di persone attive nelle manifestazioni contro il Governo.
L’economia e l’identità nazionale sono state più forti delle ferite alla Democrazia che Erdogan ha intensificato nel corso degli anni, colpendo con pericolose discriminazioni i pur deboli partiti d’opposizione, la stampa indipendente e gli imprenditori non ossequenti alle sue direttive.
Dato che le elezioni sono state fondamentalmente libere e democratiche è evidente che l’elettorato turco ha ritenuto preminente il successo economico e il prestigio nazionale rispetto alle libertà democratiche e alla parità di diritti che stanno alla base dei principi delle democrazie occidentali.
Questo crescente successo di un sistema di “democrazia autoritaria“, che sta progressivamente coinvolgendo un sempre più ampio numero di Paesi, tra i quali aggiungiamo oggi Russia, Ungheria e forse anche India, deve costituire un elemento di riflessione per tutte le nostre democrazie che, soprattutto in periodi di crisi economica, sono spinte a posporre i diritti dei cittadini e i principi di uguaglianza rispetto al successo dell’economia e all’affermazione dell’identità nazionale.
Pur tenendo conto delle speciali caratteristiche del Paese, il caso turco è quindi un’occasione per riflettere non sui fondamenti teorici ma sul funzionamento concreto delle nostre democrazie perché, se il dilemma fra risultati e diritti finisce col dividere la vita di un Paese, il rischio per la Democrazia diventa elevatissimo, soprattutto se si è in presenza di una caduta sostanziale del ruolo di dibattito e di confronto proprio dei partiti politici.
Tornando al caso turco è doverosa un’ultima riflessione, che riguarda i rapporti con l’Unione Europea.
I negoziati per l’adesione, iniziati nel 1999, sono stati estremamente utili. Per quasi un decennio hanno aiutato la Turchia ad avvicinarsi all’Europa e a modernizzare le proprie istituzioni, portando benefici economici ad entrambi i partner. Le diffidenze nei confronti dell’appartenenza ad una comune identità politica erano tuttavia troppo profonde perché il negoziato potesse procedere spedito. Vi erano alle spalle secoli e secoli di tensioni e ostilità. In una prima fase dei negoziati è stata principalmente l’Unione Europea a rallentare le trattative, ma oggi le difficoltà vengono, seppure in modo non ufficiale, anche da parte turca, proprio perché la Turchia si considera una potenza regionale, sempre meno disponibile ad accettare i condizionamenti che l’appartenenza all’UE necessariamente comporta. Il nuovo presidente della Commissione Europea Juncker ha inoltre dichiarato che nessun allargamento dell’Unione avverrà nella prossima legislatura e alcuni Paesi europei si oppongono alla prosecuzione del dialogo negoziale, anche se questo porta di per se stesso vantaggi condivisi. I negoziati di ingresso non faranno quindi progressi sostanziali ma è tuttavia interesse comune che il dialogo fra UE e Turchia prosegua verso risultati che porteranno in ogni modo verso utili forme di partenariato sia nell’ambito economico che in quello politico.
Un dialogo necessario non solo per l’importanza della Turchia ma come esempio di una politica mediterranea che l’Europa ha sempre proclamato come prioritaria ma non ha mai messo in atto.