Creare infrastrutture in Africa perchè non diventi il campo di battaglia delle grandi potenze
La Cina fra l’Europa e l’Africa
Articolo di Fabiana Bussola su Il nostro tempo del 20 febbraio 2011
I segnali che qualcosa di epocale si stava preparando c’erano tutti: Romano Prodi due anni si trovava al Cairo durante la prima sommossa popolare seguita al rincaro selvaggio del pane, che costrinse il governo di Mubarak a dirottare gli introiti provenienti dal turismo per tamponare la speculazione che stava affamando il Paese. Un evento che cominciò a erodere alle fondamenta il regime, ma che ha stupito nelle sue conseguenze di questi giorni lo stesso Prodi. «Quando esplosero le manifestazioni in Tunisia avvertii che a breve sarebbe accaduto qualcosa in Egitto», ha spiegato l’ex presidente del Consiglio al pubblico riunito a Padova da Medici con l’Africa Cuamm, in occasione del convegno «Africa tra Europa e Cina: quale cooperazione internazionale oggi».
«Tutto il Nord Africa è sotto tensione e la dinamica della rivolta egiziana è un esempio importante: non c’è un’origine strettamente politica alla base dei sommovimenti, bensì la molla è scattata in quel ceto popolare ad alto livello di istruzione che in tutta l’area soffre per la pesante disoccupazione. Resta difficile capire in che direzione andrà il Paese: oggi il punto di riferimento è l’esercito, ma la soluzione politica dovrà comprendere una più ampia rappresentanza della società».
Sicuramente i problemi politici, scacciato Mubarak, cominciano adesso. «La soluzione non potrà che essere progressivamente democratica», ha sottolineato Prodi, che presiede dal 2008 il gruppo di lavoro Onu-Unione africana per le missioni di peacekeeping in Africa ed è l’ideatore della Fondazione per la collaborazione tra i popoli, «per uscire dagli anni del regime ci vorrà gradualità. E se ciò avverrà, il segnale per tutto il Mediterraneo e l’Africa non potrà che essere molto influente». La denuncia dell’inadeguatezza dell’Unione africana («con i pochi mezzi che ha, fa quello che può») e soprattutto dell’Unione europea è forte, anche alla luce dei crescenti sbarchi di clandestini dalla Tunisia: «L’Europa non ha fatto la politica che doveva attuare in Nord Africa. A fine gennaio si è pure dimesso il segretario generale dell’Unione per il Mediterraneo Ahmad Khalef per mancanza di risorse. L’Europa a parole ha sostenuto il progetto di cooperazione mediterranea, ma in realtà ha chiuso occhi e orecchi».
Una cecità causata dai complessi equilibrismi politici dell’Unione, che sta facendo perdere terreno anche nel resto del continente africano: un’arretratezza di visione e di scelte che è resa evidente dall’ingresso della Cina in tutta l’Africa. Dal 2000 a oggi Pechino ha raggiunto i 20 miliardi di dollari di investimento stabilendo rapporti commerciali e diplomatici con 50 dei 54 Stati africani. Con il Sudafrica nel 2009 si sono toccati i 16 miliardi di dollari in scambi bilaterali e l’anno seguente si è superato il miliardo e mezzo. E il volume degli scambi continua a crescere ovunque: solo nel primo trimestre 2010 il ritmo è stato del 24 per cento. Dati che fanno tremare i polsi agli analisti, consapevoli che l’asse intorno a cui il mondo sta cambiando impone una trilateralità a cui non ci si è ancora adeguati.
«La Cina ha un enorme bisogno di materie prime, di energia e di alimenti. È arrivata in Africa senza una storia di dominio alle spalle, con denaro e progettualità. A chi mi dice che i cinesi stanno sfruttando le ricchezze del continente nero rispondo che anche l’Europa e gli Stati Uniti fanno lo stesso e non lasciano nulla». Professore alla China Europe business school di Shanghai, Prodi tocca con mano le relazioni d’interesse che il governo cinese ha intrapreso da tempo con i governi africani e stigmatizza tutto ciò che noi europei non stiamo facendo. «Siamo ancora il primo partner commerciale dell’Africa, i primi investitori, abbiamo il migliore reddito mondiale pro capite, primeggiamo in produzione industriale ed export. Però non contiamo senza l’unità politica. Ciascun Paese pensa di poter e dover agire autonomamente nelle rispettive ex colonie, senza rendersi conto che questa parcellizzazione è suicida. Senza una politica estera unitaria non reggeremo il confronto con la Cina».
Un confronto che anche nel metodo non ha pari: l’ingresso di Pechino in Africa prevede l’esportazione di merci, capitali, tecnologie e lavoratori in ogni Paese africano con cui ingaggia relazioni commerciali. Il rapporto con i governi è diretto e in massima autonomia e prevede anche la remissione dei debiti contratti con la Cina. Incidere positivamente nei bilanci pubblici, portare capitali, favorire lo sviluppo dell’assistenza sanitaria e sulla scuola, costruire infrastrutture e stabilire interscambi con gli studenti universitari sono ingredienti tra loro correlati e molto accattivanti per i Paesi africani. «Pechino deve rispondere ai bisogni di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti», ha continuato il professore, «e anche per questo non spreca nemmeno un dollaro in spese militari all’estero. Gli Stati Uniti cinquant’anni fa avevano metà del prodotto lordo mondiale e l’altra metà in spese militari: oggi questi ultimi sono rimasti tali, ma il prodotto lordo mondiale è sceso al 21 per cento. Sono dati che non vanno trascurati per capire in che direzione stiamo andando». E per l’Africa significa essere posta al centro dell’interesse politico mondiale dai cinesi: anche il Brasile si è tuffato nella politica africana e oggi l’ambasciatore brasiliano ha scalzato il terzo posto per importanza, dopo quello americano e quello cinese, al collega dell’ex colonia europea.
«Il problema della qualità della cooperazione è da rimettere al centro, anche perché l’Africa ha un tasso di sviluppo inaspettato e costante in questi ultimi anni», ha proseguito Prodi. «La crisi del 2009 non ha toccato il continente e da 6-7 anni la crescita procede a un ritmo di oltre il 5 per cento. Di Africa nell’ultimo decennio si è parlato tanto nei summit internazionali, ma francamente senza mantenere le promesse. Si parlava inizialmente di destinare l’1 per cento del Pil per il conseguimento degli obiettivi del millennio, ma non si è mai andati oltre lo 0,4 per cento».
Un altro punto è fondamentale se si vuole favorire lo sviluppo del continente: «Serve la pace. Dove ci sono conflitti non può esserci sviluppo: per questo durante la mia presidenza della Commissione europea si è istituito un fondo per sostenere i processi di peacekeeping in Africa, in modo da costituire secondo un piano almeno decennale strutture di pace locali che consentano la riorganizzazione politica ed economica interna. L’Europa ha quindi sostenuto presso l’Onu la nascita di truppe africane dell’Unione africana per mantenere l’armonia nel continente». Un successivo, indispensabile passo riguarda l’incentivo alla costruzione di un mercato intra-paese, attualmente inesistente: l’Africa importa ed esporta attivamente con Europa, Stati Uniti e Cina, ma non riesce a commerciare al suo interno, una difficoltà aggravata dall’esistenza di conflitti e dalla mancanza di infrastrutture. «L’Unione europea sta cercando di favorire questo processo», ha concluso Prodi, «il supporto all’Ua ha lo scopo non solo di favorire la pacificazione dei confini, ma anche di concordare regole condivise di commercio. C’è moltissimo da fare, ma l’aver messo intorno a un tavolo Nazioni Unite, Banca mondiale, Banca africana di sviluppo, Organizzazione mondiale del commercio, Unione europea, Stati Uniti e Cina sta aprendo orizzonti insperati. Il problema oggi è creare le strutture, perché l’Africa non diventi il campo di battaglia delle grandi potenze».