Debito pubblico del mondo, dobbiamo aprire gli occhi
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 5 settembre 2009
ROMA (5 settembre) – Fra i sostegni all’economia, le risorse impiegate nei salvataggi bancari e l’aumento delle spese per fare fronte alla crisi, il debito pubblico sta crescendo in tutti i Paesi del mondo.
Esso sarà nell’anno prossimo intorno al 77% del Prodotto interno lordo negli Stati Uniti, l’86% in Francia, l’81,7% in Gran Bretagna, l’83,8% nella zona Euro, per arrivare non lontano dal 120% in Italia e al 177% in Giappone.
Non siamo ai livelli dell’immediato dopoguerra (in cui le finanze pubbliche erano in evidente dissesto), ma in qualche caso poco ci manca, se pensiamo che negli Stati Uniti nel 1946 il debito pubblico era intorno al 108% del Prodotto interno lordo, ed era più del doppio in Gran Bretagna e in altri Paesi europei.
Anche se il paragone con le economie post belliche è almeno in parte forzato, è tuttavia utile ricordare gli strumenti e le misure adottate in passato dai vari Paesi per alleviare il peso del debito in eccesso, indipendentemente dal fatto che esso sia stato accumulato in un’economia di pace o in un’economia di guerra.
Lasciando da parte il metodo brutale della bancarotta del Tesoro (che fece in passato fallire i banchieri genovesi che avevano prestato al regno d’Inghilterra poi divenuto inadempiente), possiamo ricordare come siano tre gli strumenti storicamente ricorrenti.
Il primo è quello di provocare il riequilibrio della finanza pubblica attraverso una diminuzione delle spese e un aumento delle entrate fiscali o una combinazione di tutte e due.
Il secondo è quello di adottare una politica di “inflazione guidata” in modo da aumentare il valore monetario del Prodotto interno lordo (cioè il denominatore) diminuendo così il peso relativo del debito (cioè il numeratore).
Il terzo è l’aumento della crescita dell’economia fino a rendere il debito pubblico sostenibile nel lungo periodo.
È vero che quest’ultimo è l’unico metodo sano per liberarsi del peso eccessivo del debito ma è altrettanto vero che non sarà facile per l’economia dei Paesi più industrializzati mantenere a lungo un elevato ritmo di sviluppo senza un aumento sostenuto della produttività.
Il che implica rivoltare come un calzino le regole e i modelli di vita dell’intero Paese.
Pur tentando di battere questa terza via i governi, una volta usciti dalla crisi, si divideranno tuttavia fra coloro che metteranno l’accento sul primo o sul secondo strumento, cioè si divideranno fra i sostenitori dell’equilibrio di bilancio e coloro che spingeranno invece sull’inflazione.
Possiamo già da oggi immaginarci le future discussioni fra la Germania, campione dell’austerità di bilancio, e altri Paesi meno ostili di fronte ad una inflazione guidata, tale da portare in un periodo di dieci-quindici anni il debito pubblico verso dimensioni ragionevoli. In linea generale, almeno in Europa, l’indipendenza della banca centrale costituisce un baluardo molto robusto per evitare gli errori del passato.
L’adozione di una politica non rigorosa nei confronti dell’inflazione è tuttavia una tentazione ancora assai forte nei paesi come gli Stati Uniti o l’Italia nei quali il debito pubblico è per molta parte in mano straniera.
È evidente infatti che, mentre il peso delle imposte e i sacrifici derivanti dalla diminuzione della spesa pubblica cadono interamente sulle spalle dei cittadini, la perdita di valore del debito pubblico si scarica anche sugli stranieri che hanno acquistato i titoli del debito pubblico stesso. E nel caso dell’Italia si calcola che almeno la metà di questi titoli sia in mani straniere.
La tentazione di liberarsi dal debito pubblico contando soprattutto sull’inflazione è inoltre ancora maggiore in un mondo in cui da un’intera generazione la lotta contro l’elevata fiscalità è diventata la priorità assoluta di ogni campagna elettorale.
Pur consapevole del fascino potente dell’inflazione non credo che questo sia il modo corretto per rimettere in equilibrio i conti e per aiutare la ripresa.
I danni dell’inflazione sono infatti molto superiori a quelli che derivano dall’adozione delle politiche alternative in precedenza elencate.
Nel nuovo quadro della concorrenza mondiale, in cui la crescita salariale è diventata solo un’ipotesi, l’inflazione sarebbe infatti un’insopportabile tassa non solo per i pensionati ma per tutti i lavoratori. Essa produrrebbe un ulteriore intollerabile peggioramento nella già iniqua distribuzione dei redditi.
Oltre a provocare distorsioni in tutta la vita economica (investimenti, ecc.) sarebbe insomma un aumento del peso fiscale riservato soprattutto alle categorie più povere.
Non credo che sarebbe una bella via d’uscita dalle presenti difficoltà.
Il fatto che, in piena crisi, nel momento in cui molte aziende rimangono chiuse anche dopo le ferie estive e la disoccupazione è in aumento sia negli Stati Uniti che in Europa, gli economisti stiano dibattendo su questi problemi può anche costituire una conferma della irrilevanza pratica della nostra categoria.
Ritengo tuttavia che aprire un dibattito su questi temi oggi possa essere utile ai politici per prendere sagge decisioni domani.