Distrutti i capannoni ma non i cervelli. Aiutare le imprese a ripartire con la velocità del fulmine
Il caso Emilia
La lezione del sisma nell’Italia dell’Ego
Articolo di Romano prodi su Il Messaggero del 3 giugno 2012
Dolore, solidarietà e paura sono i sentimenti che colpiscono nel primo contatto con le zone terremotate. Il dolore è per le vittime del sisma, per la perdita o l’irreparabile rovina delle proprie cose e dei beni della comunità, nei paesi che non hanno più torri e campanili. La solidarietà si respira in ogni momento, nelle sterminate tendopoli nelle quali vigili del fuoco, operatori sociali e volontari arrivati da tante regioni italiane, regolano una vita comunitaria difficilissima da gestire per la presenza di disagi di ogni tipo. Il tutto in un’atmosfera operosa, non rumorosa e con un ordine quasi teutonico.
Il sentimento più complesso è tuttavia la paura, perché non solo è una paura forte e intensa ma perché essa produce una profonda ansia sul presente e sul futuro.
Sul presente pesa come un macigno la paura di nuovi disastri per un terremoto che non finisce mai, con vibrazioni continue e con sussulti improvvisi, la combinazione dei quali accumula tensioni su tensioni.
La paura più sottile e forse più profonda riguarda però il futuro, perché il sisma ha colpito un territorio particolare per la densità e la qualità delle imprese in esso insediate. La densità si evidenzia da sola percorrendo le antiche strade che uniscono Finale Emilia, Crevalcore , Mirandola, Cavezzo, San Felice sul Panaro e gli altri centri colpiti dal sisma, tutti simboli di quello sviluppo territoriale diffuso che, in passato, ha salvato il nostro paese. Anche in questa difficile congiuntura il legame territoriale riesce ad esprimere i suoi effetti positivi: imprese, cittadini e amministratori reagiscono insieme di fronte ad un avvenimento senza precedenti.
Vi è però una paura più specifica che nasce dalle caratteristiche di molte tra le maggiori aziende della zona. A differenza di altri distretti industriali vi è infatti, soprattutto intorno a Mirandola, una concentrazione di imprese particolari, tutte dedicate al settore biomedicale. Esso ha avuto la sua forza propulsiva nella produzione di apparecchi per dialisi e si è progressivamente diversificata verso strumentazioni mediche di altro tipo ma ugualmente complesse. Un settore che proprio in questi mesi sta celebrando i suoi cinquant’ anni di vita e che in questi cinquant’anni si è sviluppato diversamente dagli altri distretti perché, anche in ragione della complessità dei suoi prodotti, la maggior parte delle più grandi imprese del settore è ora in mano ad aziende multinazionali.
Tra amministratori pubblici, dirigenti e lavoratori si respira la paura che il terremoto, intervenuto nella congiuntura economica mondiale più difficile di tutto il dopoguerra, sia l’occasione per abbandonare l’Italia. Si teme cioè che, avendo queste imprese stabilimenti sparsi in tutto il pianeta e capacità produttiva in eccesso in conseguenza della difficile congiuntura, si lasci semplicemente morire quello che la natura ha orribilmente danneggiato. Non è un’idea stravagante perché ipotesi concrete per trasferire la produzione in altri paesi si sono in questi giorni concretamente ipotizzate, anche se poi smentite.
L’intervento pubblico non può perciò riguardare soltanto aiuti fiscali e finanziari ma deve immediatamente mettere a disposizione delle aziende colpite le numerose strutture industriali della zona che la crisi aveva rese inoperose, in modo da garantire la continuità produttiva delle imprese danneggiate. La protezione civile è perciò chiamata all’ ulteriore impegno di intervenire nel tessuto industriale reperendo i tecnici per le necessarie certificazioni e per la rapida messa in sicurezza degli impianti. Tutte cose da fare con la velocità di un fulmine. Ancora più importante per il futuro di questo distretto ( ma è un insegnamento che vale per tutti gli altri) è la promozione delle strutture di ricerca pubbliche private indispensabili perché il settore rimanga e si sviluppi in Italia.
Le imprese che hanno nell’area un’adeguata capacità di ricerca sono infatti quelle che ad essa si sentono più profondamente radicate. Non è un caso che la prima azienda che ha annunciato la volontà si rimanere sia proprio quella che ha in Italia il maggior numero di ricercatori. Il terremoto ha infatti distrutto i suoi capannoni ma non i suoi cervelli, che sono la risorsa più difficile da rimpiazzare. La più importante messa in sicurezza del Paese è perciò l’investimento nella ricerca: il terremoto ci ricorda anche questo.
Un problema altrettanto importante, che riguarda l’area terremotata in tutto il suo complesso (imprese industriali, artigiani, commercianti e famiglie) è quello del credito. Il sistema bancario deve preparare in modo coordinato una strategia finalizzata ai bisogni della ricostruzione. Ho assistito al caso di una banca che offriva generosamente un prestito a un impresa danneggiata con l’obbligo di restituzione entro la fine dell’anno: anche se giustificata da vincoli di bilancio, mi è sembrato un esempio di macabro umorismo.
Un altro insegnamento particolare deriva dalla profonda integrazione che vi è ormai, nella parte più produttiva dell’Italia, fra gli immigrati e i cittadini italiani. Non solo il tributo di vittime da parte degli immigrati è stato sproporzionalmente elevato ma il forzato ritorno in patria di molti di essi ( a partire dalle badanti a finire dai lavoratori manuali) ha enormemente complicato le condizioni di vita e le modalità di ripresa di tutta la zona. L’Italia è proprio diversa dal passato, anche nei terremoti.