Dopo la Siria, anche la Libia sull’orlo della guerra civile: l’Europa e l’Italia intervengano immediatamente

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 25 gennaio 2014

Coloro che avevano deciso l’attacco militare contro la Libia ritenevano che la morte di Gheddafi avrebbe segnato l’inizio di un periodo di stabilità e di avvicinamento alla democrazia della Libia e di tutta la regione attorno ad essa.

Sono passati oltre due anni da quel 20 ottobre 2011 e la stabilità e la democrazia sembrano essere obiettivi sempre più lontani.

Nella dissoluzione dell’esercito libico i Tuareg, che ne costituivano il nucleo più efficiente e fedele, sono fuggiti attraversando il Sahara e, forniti delle armi moderne che erano in abbondante dotazione nell’esercito libico, hanno occupato le città di Kidal, Gao e Timbuktu nel nord del Mali e, se non vi fosse stata la pronta reazione francese e delle forze di pace dell’ONU, avrebbero probabilmente invaso il paese intero e sarebbero dilagati in tutto il Sahel.

All’ondata di instabilità politico-militare dell’area subsahariana è seguita la tragedia umanitaria di centinaia di migliaia di profughi fuggiti dai luoghi di violenza, mentre la già miserevole situazione economica si è ulteriormente aggravata. Il denaro libico costituiva infatti la maggiore risorsa di tutta la regione. La sua sparizione ha provocato una progressiva crescita dell’economia illegale: il traffico della droga, i contrabbandi di ogni tipo, i rapimenti e gli episodi di violenza si sono moltiplicati, lasciando crescente spazio al terrorismo internazionale, che si è ormai fortemente radicato in tutta l’area.

L’esercito francese e le truppe dell’ONU stanno faticosamente ricostruendo le strutture statuali del Mali ma, nello stesso tempo, la Libia fatica sempre di più a percorrere il proprio cammino verso la normalizzazione.

La riorganizzazione dell’autorità statuale è più faticosa di ogni previsione ed il governo non appare in grado di esercitare la necessaria autorità sul territorio, controllato da strutture armate locali che obbediscono a legami familiari e tribali. Non si tratta di poche centinaia ma di decine di migliaia di uomini che, divisi in fazioni e forniti di armi moderne e sofisticate, tengono sotto controllo le diverse aree del paese.

Gli episodi di violenza, gli omicidi politici e i rapimenti si susseguono con una tale frequenza che trovano uno spazio sempre più ridotto nei media internazionali.

Le tensioni tribali delle katibe si aggiungono ai tradizionali conflitti esistenti fra le diverse regioni del paese: sopratutto fra la Tripolitania e la Cirenaica, dove agiscono forze indipendentistiche che, pur essendo presenti da sempre, erano state tenute sotto controllo dalla ferrea organizzazione militare di Gheddafi.

In questa situazione l’autorità del governo è costantemente messa in discussione. Basta ricordare il ben noto episodio della legge sull’epurazione di coloro che avevano collaborato con il vecchio regime. Mentre il Parlamento stava approvando una legge severa ma sostanzialmente equilibrata, centinaia di uomini armati hanno assediato il Parlamento stesso, obbligandolo in poche ore a cambiare radicalmente la legge. Ne è uscita una norma talmente restrittiva che chiunque abbia avuto una qualsiasi funzione nell’ambito della precedente amministrazione non può esercitare alcun ruolo nella nuova Libia. Praticamente nessuno che sappia leggere o scrivere, a meno che non abbia sempre vissuto all’estero, può essere assunto nell’amministrazione o può esercitare alcuna attività politica.

La vita economica è naturalmente vittima della precarietà di questa situazione, così come è sottoposta a periodiche riduzioni la produzione di petrolio e di gas naturale, che costituisconol’unica fonte di sostentamento della Libia.

I paesi europei, che erano stati così pronti a scatenare la guerra, sembrano incapaci di contribuire alla costruzione della pace.

Alcuni di essi, tra i quali primeggia l’Italia, contribuiscono saggiamente alla formazione delle forze di polizia e dell’esercito. Si tratta di un’azione positiva, ma non certo sufficiente alla costruzione del clima di dialogo e di solidarietà che sono necessari per riorganizzare uno stato unitario e funzionante.

Questo processo è invece urgente anche perché in Libia, con il procedere della violenza, prendono sempre più piede le milizie legate al terrorismo internazionale. Bisogna quindi evitare ad ogni costo il percorso della Siria, dove un iniziale rivolta politica si è progressivamente trasformata in una tragica guerra civile e dove, dopo anni di sangue e di interferenze di potenze straniere, le trattative di pace risultano così difficili che anche una semplice tregua umanitaria sembra un obiettivo irraggiungibile.

Evitare una traiettoria siriana per la Libia è quindi un dovere per l’Europa e, soprattutto, per l’Italia, che alla Libia è così vicina sotto l’aspetto geografico, politico ed economico.

Il dialogo fra le diverse kabile va iniziato oggi, prima che il livello della violenza e del sangue lo rendano impossibile. In Libia, e tra il milione e mezzo di libici che vivono all’estero, vi sono uomini di buona volontà che credono nella possibilità di questo dialogo: noi tutti abbiamo il dovere di aiutarli e di garantire che i negoziati possano svolgersi in modo pacifico e trasparente.

Le grandi risorse naturali e il modesto peso demografico potranno fare in modo che il possibile processo di pacificazione nazionale possa trasformare in meglio l’economia della Libia in uno spazio di tempo straordinariamente breve. Se siamo stati così rapidi nel decidere una dubbia operazione militare mi auguro che siamo altrettanto rapidi nell’aiutare il processo di pacificazione di cui la Libia ha così urgente bisogno.

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Dati dell'intervento

Data
Categoria
gennaio 25, 2014
Italia