Governo non all’altezza, qualsiasi nuovo timoniere è meglio dell’attuale
Governo non all’altezza, qualsiasi nuovo timoniere è meglio dell’attuale
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 02 Ottobre 2011
Prima dell’inizio delle ferie estive avevo scritto, con una certa sorpresa per molti, che in presenza di fortissime tensioni economiche e finanziarie della zona euro, una crisi di governo sarebbe stata inopportuna. Mi sembrava infatti pericoloso restare senza un timoniere nel mezzo della tempesta, tenuto conto dell’incapacità di decisione dei governi europei e di una speculazione determinata a colpire con sempre maggiore violenza i mercati più deboli. Poi è arrivato agosto. La speculazione e le incertezze politiche sono aumentate di intensità e, in aggiunta, le previsioni e i dati sulla crescita sono stati ovunque corretti al ribasso. Il deterioramento della situazione e il peggioramento delle previsioni hanno toccato in particolar modo l’Italia, che si trova ora al fondo delle classifiche mondiali. Di fronte a questo stato di fatto la reazione del governo italiano non è stata, sotto alcun aspetto, all’altezza della situazione.
Le successive manovre economiche si sono distinte per la loro insufficienza, frammentarietà e contraddittorietà. Proposte di aumenti fiscali si sono susseguite in modo confuso e, nella maggior parte dei casi, sono state cambiate non solo in conseguenza della reazione delle categorie interessate ma anche per effetto di interessi contrapposti nell’ambito della coalizione di governo. Anche lasciando da parte i danni di tali comportamenti sulle quotazioni azionarie delle nostre imprese, questi eventi hanno provocato un enorme imprevisto e ingiustificato aumento dello «spread» dei nostri titoli pubblici rispetto al parametro di riferimento, che è il cosiddetto «Bund» tedesco.
Per un Paese con un debito pari al 120% del Pil come è il caso italiano, una differenza di 3-4 punti nel tasso di interesse si trasforma in peso insostenibile. Anche se la durata media del nostro debito è intorno ai 6-7 anni, ogni volta in cui il Tesoro è obbligato a rinnovare una quota di questo debito, il crescente costo degli interessi diventa una corda al collo che strozza la nostra economia. Anche una severa manovra di aggiustamento delle finanze pubbliche sarebbe infatti vanificata dall’aumento degli interessi sul debito pubblico. Una delle motivazioni più forti della nostra volontà di entrare nell’euro era stata infatti quella dell’abbassamento dei tassi di interesse sia a carico dello Stato che dei debitori privati.
Ricordo a questo proposito come fosse stata accolta con sufficienza (e in molti casi con derisione) la previsione, poi puntualmente avveratasi, di una diminuzione al di sotto del 5% dei tassi per l’acquisto dell’abitazione in conseguenza dell’entrata dell’Italia nell’euro. Questo stato di grazia è durato non un giorno ma otto anni. Poi è arrivata la crisi finanziaria, quindi il caso greco ha messo in rilievo che le economie europee non sono tutte uguali e i tassi dei diversi Paesi, senza una politica europea, hanno cominciato a divergere. Ben pochi tuttavia pensavano che l’Italia sarebbe stata la vittima più illustre di questa tempesta e nessuno pensava che il nostro «spread» potesse superare anche quello della Spagna, Paese economicamente più debole, soprattutto per la sua struttura economica dominata dall’edilizia e quindi più esposta alla crisi rispetto agli altri.
Su tutto questo sono arrivate le nostre incertezze e le nostre liti di agosto con la quotidiana disputa tra il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e tra quest’ultimo e tutti gli altri ministri. Il che ha prodotto un ulteriore drammatico deterioramento dell’immagine dei nostri vertici governativi. Questa cacofonia, unita a comportamenti personali del tutto singolari, ha provocato, all’interno del Paese, il distacco dall’esecutivo di molti dei pilastri che lo avevano sostenuto, a partire dalle associazioni di piccoli imprenditori e della Confindustria e a un raffreddamento di quella parte delle gerarchie ecclesiastiche e di quei sindacati che, finora, avevano sostenuto il governo. Il giudizio negativo è ancora peggiore all’estero dove, a livello di classe dirigente, non vi è più fiducia che vengano prese le decisioni necessarie mentre, a livello popolare, l’Italia è oggetto di ironia, scherno e derisione.
I media di tutto il mondo ci considerano come una realtà imbarazzante mentre la gente comune si chiede come si possa essere giunti a questo punto e come l’Italia possa essere caduta così in basso. Questa domanda viene insistentemente posta non solo in Europa ma in tutto il mondo, negli Stati Uniti, in Asia e in Africa. È un giudizio ormai universalmente condiviso, che pesa ancora di più di quello delle agenzie di rating perché umilia l’anima più profonda del Paese proprio quando in occasione del 150° anniversario dell’unità, l’Italia sta riflettendo sulla sua storia e sta cercando di ritrovare un suo ruolo e una sua missione nel mondo globalizzato.
Non è difficile misurare il danno che tutto questo procura al nostro Paese e soprattutto alle giovani generazioni che non vi vedono più né una base economica né un’identità etica e culturale a cui riferirsi. Dopo la drammatica estate che abbiamo passato bisogna perciò giungere alla conclusione che, pur navigando in un mare in tempesta, qualsiasi nuovo timoniere è meglio di quello esistente e che il rischio di un cambiamento è certamente preferibile alla certezza che la nostra nave vada a schiantarsi contro gli scogli.