I primi colpi di Obama e quelli ancora da battere
Dalla sanità all’economia: i primi colpi di Obama e quelli ancora da battere
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 17 aprile 2010
È vero che gli umori in politica cambiano in fretta ma quello che è avvenuto negli Stati Uniti negli ultimi due mesi rappresenta un caso quasi sorprendente. Come ben sappiamo, l’irruzione nella scena politica del presidente Obama aveva aperto aspettative quasi sovrannaturali, tanto che il presidente stesso, per ridimensionare le eccessive attese dei suoi troppo accesi sostenitori, era uscito nella famosa frase «non sono nato a Betlemme».
Sono poi seguiti mesi di difficoltà, in cui Obama sembrava non solo perdere il suo tocco miracoloso ma, indebolito dalla battaglia senza fine sulla riforma sanitaria, non appariva in grado di affrontare con la dovuta decisione né i problemi interni né quelli internazionali. I suoi stessi collaboratori, interrogati sui singoli temi politici, confessavano sempre più spesso che «il presidente non aveva ancora preso posizione in materia». Obama insomma, partito come un punto esclamativo, stava diventando un punto interrogativo.
In ogni caso il suo tocco magico sembrava sparito fino al punto che la sconfitta in una elezione per un singolo seggio senatoriale era interpretata come il segnale di una inarrestabile caduta.
È vero che si trattava del seggio altamente simbolico reso vacante dalla morte di Ted Kennedy e che con questa perdita i democratici non raggiungevano la maggioranza qualificata necessaria per abbreviare alcune procedure parlamentari, ma è altrettanto vero che rimaneva ai democratici una invidiabile maggioranza di cinquantanove seggi contro quarantuno. A questo punto Obama ha puntato i piedi, ha sfidato il Parlamento e ha ottenuto l’approvazione della tanto contestata riforma sanitaria.
Questa vittoria ha di nuovo cambiato l’orientamento dell’opinione pubblica, che si è rimessa sulla lunghezza d’onda del presidente, e ha mutato anche l’atteggiamento della maggioranza dei leader internazionali, corsi a Washington a discutere su come controllare la proliferazione nucleare ma, indirettamente, a celebrare il primo concreto successo di politica estera del presidente Obama, cioè il trattato di riduzione delle testate nucleari firmato a Praga con il presidente russo Medvedev. Un accordo che va finalmente nella direzione giusta e che evidenzia un cambiamento radicale della politica americana, ma in complesso un accordo quantitativamente modesto, nel quale la riduzione delle testate deriva più dal modo con cui sono contate che non dalla distruzione fisica delle testate stesse.
In questo nuovo quadro, l’economia desta tuttavia ancora grande preoccupazione, tanto è vero che gli americani che giudicano lo stato dell’economia cattivo o molto cattivo raggiungono il 77% di tutti i cittadini adulti.
E questo perché il peso dei debiti sulle famiglie rende molto più dubbia la ripresa dei consumi, le banche sono ancora assai riluttanti nel fare credito e la massa delle case invendute sul mercato è enorme.
Nonostante questo la Borsa si è messa a correre e l’indice Dow Jones è progressivamente cresciuto fino a superare il magico livello di 11.000 punti, anche se poi ha ripiegato nella giornata di ieri, e le previsioni di economisti e uomini d’affari sono quotidianamente corrette verso l’alto. Nonostante il triste giudizio sullo stato dell’economia, non si parla più di una ripresa ad alti e bassi (la così detta ripresa a W) ma di una ripresa forte e continuativa (la così detta ripresa a V) anche se i dati che la suffragano non sono certamente né univoci né definitivi.
Le voci che prima erano ritenute scarsamente importanti, come la robusta crescita dell’economia asiatica e un temporaneo aumento della domanda di automobili, vengono ora ritenuti un segno di cambiamento irreversibile, mentre vengono messi in secondo piano i dati sul deficit pubblico e sulla disoccupazione, che tanto pesano ancora sul futuro dell’economia americana.
Non importa se un temporaneo aumento dei consumi è stato sufficiente per espandere il deficit della bilancia commerciale a 39,7 miliardi di dollari nel solo mese di marzo e nemmeno se il deficit pubblico rimane a livelli stratosferici, in fondo non molto lontani da quelli greci. Il fatto che il consumatore stia ricominciando a entrare nei negozi e che le prospettive politiche del Paese si siano almeno temporaneamente stabilizzate spingono a prevedere l’inizio di una migliore prospettiva sia del futuro economico che di quello politico.
Personalmente rimango ancora prudente sulla definitiva uscita dalla crisi dell’economia americana e altrettanto consapevole delle difficoltà della politica estera (soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente) tuttavia non posso che prendere atto con favore del grande cambiamento delle aspettative che si è manifestato in soli due mesi. Non ci resta che sperare che queste previsioni diventino davvero una realtà e che Obama, se non nato a Betlemme, sia almeno nato nei pressi.