Il governo ricerchi con Fiat e sindacati un percorso comune per rilanciare il destino industriale del Paese
Il Governo e la Fiat
L’Italia dell’auto a marcia indietro
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 4 marzo 2012
Non passa giorno senza qualche rivoluzione nel settore dell’auto. Il terremoto dura da vent’anni e non se ne vede la fine. Alcune tendenze sono tuttavia chiare e inarrestabili.
- La prima è l’ascesa asiatica, rappresentata simbolicamente dalla Cina ( ormai primo mercato e primo produttore mondiale) ma che vede anche Giappone e Corea tra i grandi protagonisti del mercato globale.
- La seconda tendenza riguarda la perdita di mercato dei paesi della “Vecchia Europa”, passati in dieci anni da un terzo a un quarto della produzione mondiale.
- La terza è rappresentata dalla morte, con successiva parziale resurrezione, dell’industria americana.
Vi è infine un’evoluzione che accompagna tutti questi cambiamenti, ed è la serie ininterrotta di accordi, concentrazioni e fusioni fra imprese, al fine di raggiungere le dimensioni e le economie di scala necessarie a competere nel mercato globale. Le imprese automobilistiche, con queste azioni, tendono ad operare in un numero sempre più elevato di paesi, anche per diminuire il rischio caratteristico di un settore fortemente ciclico come quello dell’auto.
Questo terremoto è stato provocato dalle forze del mercato ma è stato ovunque accompagnato da un attenta politica industriale da parte dei governi. Basta pensare non solo ai cospicui aiuti finanziari mobilitati da Obama per salvare Detroit ma anche alla politica tedesca per mantenere in Germania l’ Opel e ai sussidi che Zapatero ha concesso in varie forme alle multinazionali perché restassero in Spagna.
Nonostante il naturale travaso verso nuove localizzazioni, i governi dei paesi ricchi hanno fatto ogni sforzo per conservare un forte presidio dell’industria dell’automobile perché tale industria anche oggi rimane un essenziale sostegno all’occupazione e un pilastro difficilmente sostituibile per l’equilibrio della bilancia commerciale. Questo obiettivo è stato raggiunto o attraverso l’azione di forti imprese nazionali (come in Germania e in Francia) o con la presenza di imprese estere, come in Spagna e in Gran Bretagna.
La nostra industria ha affrontato questa sfida in situazione di sostanziale diversità rispetto agli altri paesi europei in quanto operava in Italia un’unica azienda, già in sofferenza per l’insufficiente dimensione e gli elevati costi.
La fusione con la Chrysler è stata perciò una decisione magistrale. Essa ha centrato l’obiettivo di salvare un’impresa divenuta troppo fragile di fronte alla nuova concorrenza e ha preservato un presidio importante dell’economia italiana.
Negli ultimi due anni, tuttavia, questi obiettivi sembrano allontanarsi sempre di più dai nostri orizzonti.
La quota di mercato della Fiat in Italia e in Europa cala vistosamente e continuamente, mentre le auto che escono dagli stabilimenti italiani diminuiscono verso livelli preoccupanti. Da 1.271.000 vetture prodotte nel 2001 siamo arrivati a meno di 500.000 nello scorso anno.
Quando ci si trova di fronte a questi dati gli economisti parlano di “senility effect,” cioè di un effetto di senescenza che fatalmente conduce alla morte di un’impresa o di un ramo d’azienda. Alla luce di questi semplici dati è perciò doveroso preoccuparsi del futuro di un settore che in Italia, soprattutto per la robusta presenza di produttori di componenti, occupa ancora oltre 160.000 persone e fattura quaranta miliardi di Euro. Non possiamo peraltro dimenticare che il settore dei componenti, anche se agisce in uno scacchiere internazionale, difficilmente riesce a vivere senza la forza trascinante di una vicina industria automobilistica.
A questo si aggiunge la perdita di velocità nella ricerca che, anche in anni già per noi difficili, aveva prodotto a Torino una serie di straordinarie innovazioni. Negli ultimi saloni da Francoforte a Detroit tutti hanno invece presentato modelli ibridi ed elettrici e hanno mostrato un ruolo ormai dominante dell’elettronica in tutte le funzioni di controllo e sicurezza. ”Silicon Valley entra a Detroit. ”: questo è ormai lo slogan del settore. E da noi ?
Le statistiche mostrano infine che, negli ultimi anni, il costo orario del lavoro italiano è divenuto in media (oneri sociali compresi) assai inferiore rispetto a quello degli altri paesi della vecchia Europa. Per tradurre questo vantaggio in diminuzione del costo per unità di prodotto occorre naturalmente un aumento di efficienza: questo è il compito di una concertata azione e di un impegno serrato della Fiat, dei Sindacati e del Governo.
Tale è il quadro, mentre gli accordi fra General Motors e Peugeot-Citroen dimostrano che si sta aprendo una nuova partita che porterà ad un ulteriore adeguamento delle capacità produttive degli impianti alle più ridotte dimensioni del mercato.
A questo punto, poiché non credo che Marchionne abbia perduto la primitiva passione che lo ha spinto ad assumere una sfida così importante per l’Italia, è giunto il momento in cui il governo si debba assumere la responsabilità di ricercare con Fiat e Sindacati una strada comune per ricostruire una presenza italiana forte e concorrenziale in un settore sempre più difficile e complesso ma che non può essere abbandonato senza mettere ulteriormente a rischio il destino industriale dell’Italia. Non si venga a parlare di dirigismo o di interferenza nel gioco del mercato. Si tratta solo di fare, con troppi anni di ritardo, quello che tutti gli altri paesi hanno fatto per garantire un futuro alla propria economia. Compito dei governi democratici è infatti quello di utilizzare la politica industriale come luogo di necessaria sintesi delle diverse posizioni. Le dittature impongono ma le democrazie debbono guidare.