In Egitto l’esercito soffoca la rivoluzione, ma il processo democratico è ormai cominciato
Se l’Egitto gioca contro la Storia
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del17 giugno 2012
Quello che sta avvenendo in queste ore al Cairo è uno straordinario esempio di come si soffoca con destrezza una rivoluzione, senza sangue ma con una strategia politica che lascia poco scampo. Sembra di leggere un vero e proprio manuale di controrivoluzione.
Sedici mesi fa il Cairo si riempiva di giovani che, con travolgente successo, hanno rovesciato in poche settimane il trentennale potere di Mubarak. Era una rivolta che spingeva verso la democrazia e la modernizzazione, fondandosi su una nuova generazione che cercava di distaccarsi sia dall’orbita dell’onnipotente potere dell’esercito che dalla capillare presenza dei fratelli mussulmani.
La novità era tale che venne naturale etichettare questi avvenimenti con la definizione di “primavera araba”. La rivoluzione appariva così robusta che non solo Mubarak veniva arrestato ma l’esercito e i fratelli mussulmani si impegnavano a non presentare un proprio candidato alla presidenza dell’Egitto, quasi accettando l’irresistibile marcia del nuovo corso.
Le cose si sono poi sviluppate in modo diverso. La rivoluzione ha dimostrato di non avere sufficienti radici nel profondo Egitto e i fratelli mussulmani hanno vinto le elezioni divenendo, insieme al gruppo degli estremisti salafiti, la forza dominante del parlamento. Nel frattempo, tuttavia, la confusione regnava sovrana: gli introiti del turismo si azzeravano, i capitali fuggivano all’estero mentre ritornavano in patria centinaia di migliaia di emigrati dalla Libia e dai paesi del Golfo, facendo salire il tasso di disoccupazione a livelli drammatici, soprattutto a danno della giovane generazione che era stata la protagonista della primavera di piazza Tharir.
Mentre la crisi economica e la disoccupazione sfibravano il paese, le agitazioni senza fine facevano crescere ogni giorno il numero di coloro che, delusi e paurosi, invocavano il ritorno della “legge e dell’ordine”. Il nuovo parlamento, infatti, anche se in modo comprensibile data l’impreparazione alla vita democratica, si perdeva in discussioni senza fine sugli orari della preghiera o sui modi di vestire nelle spiagge e non affrontava i sempre più gravi problemi della disoccupazione e della sicurezza dei cittadini, mentre le minoranze, a partire da quella cristiana, si sentivano sempre più isolate ed indifese di fronte al nuovo corso.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali, che sono ancora in corso in questo momento, è arrivato il colpo maestro della controrivoluzione. Con una sentenza del tutto inaspettata la Corte Suprema (totalmente in mano dei militari) ha dichiarato invalide le elezioni dello scorso gennaio ed ha sciolto il Parlamento. Si tratta di un gesto simile a quello che, compiuto dal governo algerino nel 1991, aveva scatenato una guerra civile che avrebbe insanguinato l’Algeria per dieci anni.
Al Cairo fino ad ora non è successo nulla. La piazza Tharir è rimasta inesorabilmente vuota, i partiti politici si limitano a isolate dichiarazioni sulla legittimità delle decisioni della Corte e ci si è avviati verso un’ elezione presidenziale nella quale è molto probabile che il candidato dell’esercito, l’ex primo ministro Ahmed Shafiq, prevalga sul candidato dei Fratelli, indebolito dalla paura di cambiamenti che sembrano portare più danni che vantaggi.
Provocando lo scioglimento del Parlamento, l’onnipotente SCAF (Consiglio Superiore delle Forze Armate) ha silenziosamente messo in atto una strategia perfetta, probabilmente preparata da lungo tempo.
La sequenza degli avvenimenti appare oggi molto chiara: diciotto mesi fa i giovani hanno sconfitto Mubarak, nelle elezioni politiche i Fratelli hanno sconfitto i giovani di piazza Tharir e, infine, l’esercito sembra avere ormai messo in un angolo i fratelli mussulmani.
La sfibrante lunghezza del processo rivoluzionario e la diligente preparazione della sentenza della Corte sembrano tuttavia escludere le conseguenze tragiche dell’Algeria del 1991. E’ assai più probabile, anche se bisognerà attendere i risultati delle elezioni presidenziali, che avvenga quanto è scritto nel Gattopardo, che cioè tutto sembri cambiare affinchè nulla possa cambiare.
Penso tuttavia che in ogni caso anche in Egitto le cose non saranno più come prima. I partiti politici (a cominciare dai fratelli mussulmani) hanno ormai una rete organizzata in tutto il paese. I giovani di piazza Tharir, temporaneamente delusi e sfiduciati, hanno costruito legami che dureranno a lungo anche in futuro, costruendo probabilmente stabili legami politici.
Anche in Egitto, in modo simile a quanto è avvenuto in Turchia, si potrà quindi trovare nel tempo un compromesso fra i partiti islamici moderati e il vecchio establishment, di cui l’esercito è la forza ed il punto di riferimento politico ed economico.
Non è stato facile in Turchia e sarà ancora più difficile in Egitto, ma il processo democratico è in ogni modo cominciato. La sua affermazione non si misurerà in una primavera ma in sequenze temporali molto più lunghe. Credo però che l’esercito, proprio perché ha dimostrato uno straordinario tempismo politico, si renda conto che qualcosa debba progressivamente cambiare anche in Egitto.