Italia esiga un urgente programma europeo per la ripresa economica dei Paesi in rivolta
In Nord Africa il modello turco da inseguire
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 20 febbraio 2011
Mentre tutto il Medio–Oriente si sta infiammando, la prima fase post-rivoluzionaria di Tunisia e d’Egitto procede meglio del previsto. Non corre più sangue nelle strade di Tunisi e del Cairo e i governi di transizione stanno in qualche modo cercando di venire, almeno parzialmente, incontro alle esigenze di cambiamento espresse dai giovani che sono scesi in piazza. La presa di potere dell’estremismo islamico non sembra, almeno nel presente, materializzarsi. Nello stesso tempo l’esercito, che rimane il punto di continuità del potere, svolge un ruolo di garante dell’unità nazionale e di un progressivo cammino verso maggiori diritti civili.
In Egitto l’impegno di indire libere elezioni entro sei mesi è stato ribadito dalle autorità militari che, come segno di buona volontà, hanno autorizzato uno dei leader dei Fratelli Musulmani, di nome El Arian, a parlare al popolo egiziano dagli studi della televisione di Stato. L’esponente del partito islamico ha ricambiato con un discorso moderato e con un’apertura di fiducia nei confronti dei militari chiedendo, come prova del cambiamento, la rapida autorizzazione alla nascita di liberi partiti politici. El Arian si è a sua volta impegnato a dare vita ad un partito politico ma a non proporre alcun candidato dei Fratelli Musulmani alle prossime elezioni presidenziali e a evitare che essi raggiungano la maggioranza dei seggi in Parlamento nelle prossime elezioni politiche.
Si tratta di un passo in avanti verso un processo di riconciliazione nazionale anche perché i Fratelli Musulmani non solo erano stati tenuti al margine della vita politica ma erano stati sistematicamente perseguitati dalla polizia di Mubarak. Si potrebbe a questo punto pensare che l’Egitto si sia incamminato verso una “via turca” alla democrazia, con un progressivo inserimento dei partiti religiosi moderati nei posti di comando. Una via che sarebbe resa possibile da un loro cammino verso il moderatismo, la tolleranza e la laicità. Credo che questa sia una conclusione auspicabile ma assolutamente non garantita. Gli elementi di continuità col regime precedente sono infatti in Egitto molto forti (a cominciare dal peso determinante dei più stretti collaboratori di Mubarak) mentre la classe media egiziana non ha un ruolo paragonabile a quello che essa ricopre in Turchia e il Paese non è stato protagonista di un processo di modernizzazione paragonabile a quello imposto alla Turchia da Ataturk.
I rischi gattopardeschi che tutto cambi affinché nulla cambi sono quindi ancora forti perché il potere vero è nelle mani dell’esercito, anche se la sua volontà di apertura appare promettente e il ruolo degli Stati Uniti sembrerebbe decisamente favorevole all’accelerazione di un processo democratico. Uso a questo proposito il condizionale perché nemmeno Obama potrebbe in alcun modo appoggiare un eccessivo potere di un partito islamico in un Paese così importante come l’Egitto.
Questo quadro moderatamente ottimistico sul piano politico viene tuttavia messo fortemente in dubbio se si pone la dovuta attenzione alla reale situazione economica e sociale. Le strutture produttive sono infatti nella massima confusione, la disoccupazione aumenta ancora e le richieste salariali generano caos e paura. Siamo insomma già arrivati alla fase in cui i tunisini e gli egiziani non chiedono più soltanto libertà e democrazia ma vogliono un lavoro e decenti condizioni di vita. I pubblici dipendenti in Egitto e gli addetti all’abbigliamento in Tunisia alzano la voce ma difficilmente possono essere ascoltati perché il crollo del turismo vuota le casse dello Stato egiziano e le difficoltà della produzione e dell’export non aiutano certo le possibilità di crescita dei salari degli operai tunisini. Lo stesso malessere che sta aumentando le tensioni interne spinge ora migliaia di disperati verso le nostre coste.
Mi rendo conto che sto descrivendo una situazione in cui la rabbia e il malcontento possono costituire il terreno di coltura per rimpiangere il passato e dare forza a chi vuole ricostruire quel passato. È giunta perciò l’ora che gli Stati Uniti e l’Europa smettano di gioire in modo astratto per i cambiamenti avvenuti e si diano da fare perché i cambiamenti possano durare anche in futuro. Invece di limitarsi a inneggiare all’avvento della democrazia è urgente operare in modo che la democrazia non sia uccisa sul nascere dalla fame, dalla miseria e dalla rabbia.
Invece di limitarci a chiedere l’elemosina all’Unione Europea per fare fronte ai costi dei nuovi disperati dobbiamo essere noi italiani a esigere che si metta in atto un grande programma di emergenza per fare riprendere subito l’economia dei Paesi del sud del Mediterraneo. Solo in questo modo si potrà garantire non solo l’integrità del nostro territorio ma anche le conquiste di coloro che sono scesi in piazza a Tunisi e al Cairo in difesa di una libertà che abbiamo tanto osannato ma che non stiamo facendo nulla per salvaguardare.