La crisi, il lavoro e l’Italia. Camminiamo ancora sul fondo del catino.
La crisi, il lavoro e l’Italia. Camminiamo ancora sul fondo del catino.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 01 Novembre 2009
Ogni volta che escono i dati sulla disoccupazione, essi vengono accolti con allarme e sorpresa. L’allarme è pienamente giustificato perché le statistiche che riguardano il lavoro sono quasi ovunque cattive. Vanno male negli Stati Uniti dove la disoccupazione non tende a diminuire e le previsioni più accreditate ci dicono che essa si manterrà sopra al 9% non solo negli ultimi mesi di quest’anno, ma per tutto l’anno prossimo. Eppure in questi stessi giorni il presidente Obama ha potuto con soddisfazione dichiarare che il suo programma di stimolo all’economia aveva “creato o salvato” 640 mila posti di lavoro.
È a questo proposito interessante osservare che la maggioranza di questi posti “creati o salvati” non riguarda il mondo produttivo in senso stretto. Metà di questi posti sono nel settore dell’istruzione e il 12 % nell’edilizia, soprattutto come effetto di una azione governativa nel campo dei lavori pubblici. Anche se la situazione italiana è diversa da quella americana, sarà certo utile riflettere su questi dati, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione dedicata all’istruzione.
L’occupazione va male anche in Europa dove, rispetto ad un anno fa, i disoccupati sono aumentati di cinque milioni raggiungendo il 9.6% nel mese di settembre contro il 7,7% di un anno fa. Non parliamo poi della crescente tragedia della disoccupazione giovanile. Riferendoci ai Paesi dell’Euro, essa è passata, nell’ultimo anno, dal 15,7% al 21,1%. Ovunque i giovani pagano più degli altri il peso della crisi o perché non riescono nemmeno a entrare nel mercato del lavoro o perché, entrandovi come precari, sono i primi ad essere espulsi.
Le cose vanno male anche in Italia, ancora più se si tiene conto che il tasso di attività, intorno al 63%, è il più basso di tutta l’Europa a 15, Grecia e Spagna incluse. Questo significa che è enorme il numero di coloro che rimangono inattivi per il semplice motivo che non tentano nemmeno di cercare un posto di lavoro, data l’impossibilità di trovarlo. E il futuro non si prospetta certo migliore del passato.
Anche senza decidere se abbia ragione la Cgil, che stima che quattro milioni di posti di lavoro siano a rischio nel prossimo anno o se si debba accettare la previsione della Confindustria, che limita questo dato a 700 mila, si deve in ogni caso ammettere che il problema occupazionale si aggraverà ancor più in futuro, pur partendo da una situazione già così pesante. Gli occupati in Italia sono infatti diminuiti in un anno di 378 mila unità (di cui 310 mila uomini). Questo significa che le imprese stanno ancora espellendo mano d’opera sia a causa della diminuzione della domanda, sia per la necessità di ridurre i costi per effetto della crisi economica. Vi sono quindi tutti gli elementi per essere allarmati per il presente e per il prossimo futuro.
Tuttavia, se sono ben fondati i motivi di allarme, non vi sono purtroppo ragioni di sorpresa, perché nella storia di tutte le crisi economiche la ripresa dell’occupazione è sempre iniziata con due o tre trimestri di ritardo rispetto alla ripresa dell’economia.
Perfino in Asia, dove produzione e reddito stanno crescendo a ritmo sempre maggiore da almeno due trimestri, il tasso di disoccupazione non offre ancora segni di sostanziale miglioramento, anche perché (come scrive riguardo all’Asia la Banca centrale di Singapore) molte imprese, per non perdere i lavoratori specializzati, avevano rallentato i licenziamenti durante la parte peggiore della crisi e, ovviamente, ora ritardano le assunzioni nonostante la ripresa della produzione. In aggiunta a questo fenomeno, ovunque le imprese, prima di assumere mano d’opera, vogliono essere sicure che la ripresa non sia effimera e dovuta semplicemente alla necessità di ricostruire le scorte, ma sia invece stabile e duratura.
In Italia, anche se il pericolo di un crollo generale dell’economia è fortunatamente scongiurato, stiamo ancora camminando sul fondo del catino e ancora non sappiamo quanto questo fondo sia lungo. E anche quando si arriverà alla ripresa vi sono tutte le ragioni per credere che essa sarà per lunghi mesi una ripresa senza nuovi posti di lavoro. È quindi presto per abbassare il segnale di guardia.
In Italia vedo inoltre un segno di preoccupazione aggiuntiva nel fatto che le imprese non hanno alcuna idea di come sarà il mondo produttivo anche dopo il ritorno di tempi migliori. Sarà tutto come prima o nuovi prodotti e nuovi settori (come energia, ambiente e scienza della vita) cattureranno una parte consistente del “nuovo mondo” che si verrà a creare? Come ci stiamo preparando a questi probabili cambiamenti?
Non vedo purtroppo nessuna risposta positiva a tali interrogativi. Anzi, per essere più sincero, debbo constatare che questi interrogativi non vengono neppure posti. Eppure deve essere ben chiaro che la nuova occupazione dovrà essere preparata da nuove politiche, sia nell’industria che in tutti gli altri settori. Altrimenti in Italia non ci sarà né ripresa, né occupazione.