La guerra che nessuno è in grado di vincere
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 12 Ottobre 2010
Ci sono degli eventi che quando arrivano fanno molto male, anche se erano previsti e scontati. Il fallimento della riunione del Fondo Monetario Internazionale nello scorso weekend si colloca certamente in questa categoria. Questo fallimento era quasi scontato perché troppo diverse erano le posizioni dei principali partecipanti e troppo fragile il lavoro diplomatico compiuto per superare queste divergenze. L’estrema difficoltà di un accordo era parsa evidente anche dalla crescente serie di conflitti già scoppiati tra le politiche monetarie dei diversi Paesi.
Il padre di tutti questi conflitti è naturalmente la diatriba fra il governo americano e quello cinese sulla rivalutazione dello yuan, rivalutazione che gli americani chiedono ormai quotidianamente e che i cinesi rifiutano con altrettanta regolarità, sostenendo che il peso di rimettere in equilibrio i flussi valutari è responsabilità principale di chi ha creato lo squilibrio, e cioè dei cittadini statunitensi che per troppi anni hanno consumato oltre i propri mezzi. A complicare le cose è anche intervenuto il Giappone, con una politica estremamente energica volta a tenere basso il valore dello yen e aiutare così, attraverso l’aumento delle esportazioni, una ripresa che non arriva mai.
Lo stesso cammino è stato percorso dal Brasile attraverso l’imposizione di ostacoli all’afflusso di capitali dall’estero, mentre misure analoghe sono in gestazione da parte della Corea del Sud e della Tailandia. Da parte sua la Banca Centrale Europea è stata finora assai prudente ma si trova in una crescente situazione di difficoltà da quando l’aumento della quotazione dell’euro rispetto al dollaro sta mettendo a rischio la ripresa delle esportazioni, che in questo momento costituiscono lo stimolo principale della nostra economia. Questa semplice descrizione è sufficiente per illustrare come a Washington i singoli Paesi siano arrivati senza alcuna concertazione ma in ordine sparso e disposti a farsi una guerra che nessuno ha la possibilità di vincere e che, in ogni caso, è disastrosa per tutti.
Come sempre avviene nel caso di fallimento degli incontri internazionali, la riunione è finita con un tacito appuntamento per la riunione successiva, in questo caso il vertice dei G20 fissato per il mese prossimo a Seul. Tuttavia le speranze di un accordo in quell’occasione non sono certo elevate, non solo per la scarsa volontà di cooperazione tra i principali attori dell’economia mondiale ma per l’oggettiva maggiore complessità della situazione rispetto ad un passato nel quale il dollaro era forte e dominante e gli Stati Uniti potevano quindi proporre ed imporre la propria politica.
Oggi le cose non sono più le stesse. Gli Stati Uniti non sono in grado di imporre ma, al massimo, di proporre.
Se si vuole arrivare a qualcosa di concreto, bisogna quindi che i responsabili europei, americani e cinesi si chiudano in una stanza e non escano fino a che non sia trovato un compromesso da presentare ai G20. E che il compromesso trovato sia accettabile almeno dal Giappone, dall’India, dal Brasile e dalla Russia. E tutto ciò deve essere fatto prima di prendere l’aereo per Seul. Una situazione così complessa e con interessi così divergenti non può infatti essere risolta in una riunione di poche ore e con un’infinità di protagonisti. Fino ad ora i governi hanno preferito gli interventi unilaterali rispetto al tentativo di trovare una soluzione collettiva.
Arrivare al prossimo vertice con posizioni immutate significa riaprire il giorno dopo le svalutazioni competitive e gettare in un disordine ancora più disastroso tutta l’economia mondiale. Naturalmente resta aperta una terza via (che sembra trovare preferenze nel governo coreano) cioè la via di non discutere di questo problema a Seul proprio per evitare il fallimento del vertice. Non nego che la strategia del rinvio abbia portato qualche volta a risultati positivi ma escludo che possa essere applicata in questa situazione in cui le svalutazioni competitive hanno già cominciato a farsi strada e in cui nessun Paese sembra volere rinunciare ad una gestione unilaterale del proprio tasso di cambio.
Anche nella politica monetaria si è ormai passati da un mondo monopolare ad un mondo multipolare: bisogna che i grandi protagonisti di questo nuovo mondo ne prendano atto e agiscano di conseguenza.