La leadership affidabile che l’Europa chiede a Obama
La leadership affidabile che l’Europa chiede a Obama
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 5 febbraio 2010
La notizia che Obama avrebbe intenzione di snobbare il vertice fra Stati Uniti ed Unione Europea fissato per il prossimo maggio ha sconvolto le cancellerie europee. Il fatto merita di per sé attenzione perché, per tradizione, questi incontri hanno visto la partecipazione dei presidenti americani anche nei momenti più difficili delle relazioni transatlantiche, come ai tempi della guerra in Iraq.
La spiegazione più accreditata di tale atteggiamento è che la diplomazia americana si trovi disorientata di fronte alla nuova complicata struttura dei vertici dell’Unione Europea in conseguenza dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona.
Quest’interpretazione contiene certamente una parte di verità perché nessuno sa ancora con precisione chi dovrebbe essere l’interlocutore diretto di Obama, se cioè il presidente di turno dell’Unione Europea, cioè lo spagnolo José Luis Zapatero, oppure il presidente permanente Herman Van Rompuy o, in caso di un braccio di ferro tra i due, il presidente della Commissione José Manuel Barroso.
Anche se questa situazione non aiuta, non ritengo che lo scarso entusiasmo di Obama verso il continente che più lo ama sia un evento nuovo o inaspettato. Ben più rilevante è stato il fatto che, mentre si celebrava l’avvenimento politico più importante degli ultimi decenni, cioè la caduta del muro di Berlino, Obama non era a fare festa in Germania insieme ai suoi più stretti e tradizionali amici, ma era in viaggio in Cina. Un viaggio che aveva ancora più alimentato l’idea che ci si muovesse rapidamente verso il G2, cioè verso un mondo controllato da un’alleanza di ferro fra gli Stati Uniti e la Cina. Una tesi naturalmente rafforzata dalla mutua dipendenza che si è venuta creando fra il debito americano e la crescente quota di tale debito in mani cinesi. Invece è arrivato lo scontro fra Cina e Stati Uniti nella grande conferenza sull’ambiente di Copenhagen ed infine un confronto diretto in conseguenza della fornitura di armi americane a Taiwan, riaccendendo improvvisamente un conflitto che si era andato attenuando negli ultimi anni e che molti stavano pronosticando in via di soluzione.
Non è facile comprendere perché Obama abbia autorizzato questa massiccia vendita di armi facendo infuriare il governo cinese proprio nel momento in cui ha più bisogno di avere rapporti amichevoli per meglio superare la gravissima crisi finanziaria in cui si trova. È vero che Obama si è tenuto una via d’uscita negando a Taiwan la vendita di alcune armi particolarmente sofisticate, come i così detti aerei invisibili, ma è davvero singolare notare come nel primo anno di presidenza nessun grande problema di politica internazionale sia stato risolto o affrontato in modo da alleggerire le terribili tensioni che aveva ricevuto in eredità dalla precedente presidenza. Le tensioni in Medio Oriente, Afghanistan, Iraq, i complicati rapporti con la Russia si aggiungono ora ad un messaggio di indifferenza verso l’Europa e a un raffreddamento nei confronti della Cina.
Presi ad uno ad uno tutti questi comportamenti sono largamente comprensibili e ragionevoli ma, considerati in un quadro d’insieme non possono che causare almeno un senso di disorientamento.
Il presidente, che era arrivato al potere con l’obiettivo di essere il grande aggregatore della politica mondiale e che aveva dato forza a questo obiettivo con i meravigliosi discorsi che gli hanno fatto attribuire il premio Nobel, appare ora come disorientato e forse temporaneamente sopraffatto dai grandi problemi di politica interna, che spaziano dalla riforma sanitaria alla difficile strategia d’uscita dalla crisi economica.
I fili della politica internazionale, invece di semplificarsi, si aggrovigliano di giorno in giorno, erodendo quel patrimonio di fiducia che Obama si era meritatamente conquistato.
Indubbiamente un anno è un periodo di tempo troppo limitato per trasformare un fallito tentativo di solitario controllo del mondo in una politica in cui gli Stati Uniti si propongono come punto di equilibrio di una regia multipolare con una pluralità di protagonisti, tra cui non possono mancare la Cina, l’India, la Russia e, con tutti i suoi limiti, l’Unione Europea. Obama si è reso conto delle conseguenze dell’eccessiva e intenibile estensione del potere americano nel mondo ma non ha ancora deciso come porvi rimedio.
A distanza di un anno, non riusciamo ancora a individuare quale siano le strategie e le priorità di Obama per raggiungere gli obiettivi contenuti nei suoi discorsi. In ogni caso non credo che possa permettersi di snobbare i vecchi e fedeli amici senza preparare e costruire alternative credibili e, soprattutto, comprensibili.
Anche se il mondo non può più essere monopolare abbiamo tuttavia bisogno che gli Stati Uniti esercitino la loro importantissima leadership con chiarezza, con continuità e anche, se possibile, con una certa prevedibilità.