Non c’è pace senza l’unità dei palestinesi
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 ottobre 2009
Da quando non corre più il sangue nelle strade, si parla poco di Palestina e Medio Oriente. Tutto ciò è comprensibile, perché da un lato sono state seminate troppe speranze e illusioni di pace tra Israele e Palestina e, dall’altro, una ripresa economica un po’ più rapida del previsto toglie alla diffusa povertà palestinese l’aspetto drammatico di qualche mese fa.
Questa provvidenziale tregua è inoltre aiutata dalla speranza (che sta diventando sempre più fievole) che il presidente Obama possa compiere il miracolo che non è mai riuscito ai suoi predecessori, anche quelli che, come Clinton, si erano molto prodigati per la pace in Medio Oriente. Eppure proprio adesso bisogna parlare e riflettere molto sul Medio Oriente, perché, al di sotto di questa calma apparente, le tensioni sono fortissime.
Anche se l’economia ha dato qualche segno di respiro, il futuro dei giovani palestinesi, sempre nella morsa tra emigrazione e disoccupazione, rischia di essere egemonizzato dalla tentazione della violenza. Il muro, inoltre, rende drammatico ogni momento della vita quotidiana e gli insediamenti ebraici continuano ad espandersi nei territori palestinesi nonostante gli inviti di Obama ad un cambiamento di rotta. A questo si aggiunge un inasprimento delle tensioni politiche all’interno del mondo palestinese. Il Presidente dell’autorità palestinese Abbas (sulla cui moderazione si erano concentrate le speranze degli Stati Uniti e dell’Europa) appare indebolito. Viene infatti accusato di aver accettato il rinvio della discussione nell’ambito della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite del così detto Rapporto Goldstone.
Questo rapporto, pur non nascondendo posizioni fortemente critiche nei confronti di Hamas, attacca duramente Israele per avere messo in atto azioni sproporzionate nelle operazioni contro i palestinesi di Gaza. E tutti i palestinesi, amici o nemici di Abbas, volevano che questo rapporto fosse discusso immediatamente. A questo si aggiunge un’altra critica mossa ad Abbas per aver accettato un incontro con il premier Netanyahu dopo aver dichiarato la propria contrarietà all’incontro stesso, data la mancanza di aperture da parte israeliana. Tutto questo accade in un momento particolarmente delicato in cui è sul tavolo una proposta egiziana per promuovere un accordo strategico tra le due posizioni palestinesi (Hamas e Fatah) per arrivare a nuove elezioni da tenersi sia a Gaza che in Cisgiordania entro la metà del prossimo anno.
Il processo di riconciliazione tra i due gruppi politici palestinesi è già fallito in passato (nonostante i tentativi di mediazione dell’Arabia Saudita) e ritengo che sia difficile anche oggi soprattutto per il mutamento di forza fra i contendenti generato dalle vicende elencate in precedenza. Eppure gli eventi degli anni scorsi dimostrano che non si avrà mai pace in Palestina se non si arriverà prima ad una posizione unitaria fra i palestinesi. L’ipotesi che si possa trattare con una sola delle due parti o, ancora più, l’ipotesi che la pace venga favorita da qualcosa simile al “divide et impera” non regge all’evidenza di quanto è avvenuto negli ultimi anni. Al tempo stesso, infatti, la popolazione palestinese domanda l’unità dei gruppi dirigenti per affrontare i problemi della vita quotidiana: la salute, lo sviluppo economico, il lavoro. E questo vale anche per Gaza, che non può essere abbandonata. La divisione tra i palestinesi, a cui corrisponde il tentativo israeliano di accordo con una sola parte, perpetua condizioni favorevoli al terrorismo e, come risposta, operazioni come quella di Gaza, oggi condannate dal rapporto della Commissione dei diritti Umani dell’Onu. D’altra parte tutti i palestinesi debbono essere coscienti e convinti che solo nel rispetto della non-violenza è possibile costruire il futuro del loro Stato.
Dobbiamo perciò adoperarci perché il prossimo 25 ottobre al Cairo i palestinesi sottoscrivano un accordo di conciliazione che possa tradursi in una posizione comune, in modo che, ponendo fine al terrorismo e alla violenza, si possa preparare una pace da tutti accettata. Di questo passo in avanti hanno bisogno non solo i palestinesi, ma anche gli israeliani che hanno il diritto e il dovere di trattare con una controparte in grado di garantire l’accettazione e il rispetto degli accordi eventualmente raggiunti. E questo per garantire a Israele la sicurezza nel breve e nel lungo termine. E ne ha bisogno anche il Presidente Obama che, pur avendo mandato a Gerusalemme un inviato saggio e capace come Mitchell, non ha ancora potuto verificare la presenza delle condizioni minime per avviare i negoziati.
Se Obama vuole mediare con successo, ha bisogno di avere interlocutori robusti e in grado di far rispettare le decisioni dei negoziati. Parlo naturalmente solo di Obama e degli Stati Uniti, perché l’Europa è sempre più desiderata ma sempre più assente anche nel quadro mediorientale, che pure è così vicino alle sue porte. Torniamo quindi a sperare nel presidente degli Stati Uniti perché è proprio a questa speranza che è stato conferito il premio Nobel per la pace.