Non minare la credibilità dell’Italia mettendo in dubbio missioni all’estero
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 2 agosto 2009
ROMA (2 agosto) – Ogni tanto ritornano. Parlo delle posizioni politiche che si oppongono alla partecipazione italiana alle missioni militari internazionali. A volte queste posizioni riguardano singole missioni (come Bossi riguardo all’Afghanistan) a volte riguardano il concetto stesso di missione all’estero, come ha dichiarato di recente il ministro Calderoli, proponendo perfino il ritiro immediato dei nostri soldati dal Kosovo e dal Libano. Non voglio spendere molte parole su questa ultima tesi perché la rinuncia a priori ad ogni missione internazionale equivale a rinunciare alla politica estera e al doveroso contributo che ogni Paese deve prestare per la riduzione dei conflitti e la costruzione della pace.
Una nazione che sceglie l’isolazionismo è una nazione che decide di non esistere. Mi limiterò perciò a ricordare al paziente lettore il ruolo positivo e importante che il nostro Paese ha svolto quando ha guidato o ha semplicemente partecipato ad una missione internazionale di pacificazione.
Ripensiamo alla situazione tragica in cui si è trovata l’Albania nella seconda parte degli anni Novanta quando è arrivata sull’orlo di una guerra civile che avrebbe devastato l’intero Paese, con enormi perdite di vite umane e un’incontrollabile ondata di migrazione verso l’Italia. La nostra azione, aiutata da un sollecito e generoso appoggio della Francia, ha impedito la catastrofe e ha posto le condizioni per la costruzione di una struttura statuale che, pur in presenza di tante difficoltà, sta conducendo l’Albania verso un progressivo inserimento nella società democratica europea. È stata una missione difficile e rischiosa ma che, in pochi mesi, è arrivata al proprio compimento, permettendo il ritiro delle nostre truppe nei tempi e nei modi rigorosamente programmati.
Dieci anni dopo un’analoga situazione si è presentata in Libano, con una dimensione e una valenza internazionale ancora più forte. La risposta è stata altrettanto pronta. Per la seconda volta il senso della responsabilità dell’Italia e la stretta cooperazione con la Francia hanno reso possibile un’azione di cui tutti ora ci sono grati, a partire dalle Nazioni Unite per arrivare a Israele e ai Paesi Arabi. Se il Libano ha potuto portare avanti la propria ricostruzione politica e materiale, se l’economia libanese sta progredendo vigorosamente anche in questo periodo di crisi e se si sono svolte elezioni politiche pacifiche e non contestate, lo si deve alla volontà e decisione di mettere in campo le nostre forze armate insieme a quelle di tanti altri Paesi amici. Queste due missioni sono state facilmente comprese da parte della nostra opinione pubblica, non solo per il ruolo determinante da noi assunto.
Queste due missioni sono state facilmente comprese da parte della nostra opinione pubblica anche per la vicinanza geografica e per la semplicità dell’obiettivo della missione stessa, anche se in Albania il compito poteva essere di breve durata, mentre la complessa situazione del Medio Oriente rende il nostro impegno in Libano ancora lungo nel tempo.
Anche in Afghanistan noi operiamo all’interno della missione Isaf con un obiettivo condiviso, quello di aiutare il nuovo Stato afghano a stabilizzare le sue strutture per dare un futuro al suo popolo. La nostra opinione pubblica ha una conoscenza meno diretta di questa missione rispetto alle altre, sia per la lontananza geografica dell’Afghanistan, sia per il modo (non certo trasparente) con cui è iniziata, sia perché non vi svolgiamo un ruolo di leadership. Il nostro impegno è comunque pesante perché abbiamo in Afghanistan oltre 3.000 soldati. Tuttavia gli americani hanno sul campo 50.000 uomini, gli inglesi 9.000, i tedeschi 4.000 e i francesi un contingente simili al nostro. Il compito italiano è tuttavia molto importante perché abbiamo la responsabilità della sicurezza di un’intera grande provincia. E a questa responsabilità non possiamo e non dobbiamo sottrarci.
È invece nostro dovere affiancare alla presenza militare una forte azione politica per aiutare e facilitare il raggiungimento degli obiettivi che la missione militare si è assunta. Un’azione politica che, come ha dichiarato nei giorni scorsi il ministro degli Esteri britannico, Miliband, sia capace di distinguere e di dividere le diverse componenti della guerriglia e aprire un processo di riconciliazione e ricostruzione del Paese, isolando le posizioni non disposte al dialogo. L’Afghanistan è stato per troppo tempo usato come terreno di guerra dai Paesi vicini o dalle potenze occupanti. È stato troppo a lungo luogo di commercio di droga e di diffusa corruzione. Oggi né gli Stati Uniti né alcuno dei Paesi partecipanti alla missione militare vuole conquistare o colonizzare il Paese. Il dispiegamento militare deve essere solo lo strumento per un’azione politica di riconciliazione e ricostruzione del Paese. L’Italia deve perciò svolgere il suo compito in questa difficile partita. A livello internazionale con un dialogo finalmente attivo, propositivo e concreto con i nostri alleati. A livello interno spiegando all’opinione pubblica le motivazioni, gli obiettivi specifici e le modalità di attuazione della nostra missione. Fa solo del male non discutere e non approfondire le nostre strategie e le nostre idee con i nostri alleati. Così come fa solo del male utilizzare la missione in Afghanistan per esclusivi e strumentali obiettivi di politica interna. Pensando di dovere rimanere in Afghanistan solo perché ci siamo capitati, mettendo in dubbio le ragioni della nostra presenza ogni quattro mesi, si fa un cattivo servizio non solo alla comunità internazionale ma anche e soprattutto all’Italia.