Nucleare: tempi, costi e strategia. La sfida di un treno che deve correre forte
Nucleare: tempi, costi e strategia.
La sfida di un treno che deve correre forte
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 28 febbraio 2010
Le decisioni del governo hanno riaperto in Italia il dibattito sull’energia nucleare. Non è facile dire cosa ne pensi veramente l’opinione pubblica, e ancora di più, che cosa vogliano veramente i politici. Essi si dividono infatti ferocemente fra favorevoli e contrari ma si uniscono comunque fraternamente nel non volere nessun impianto nucleare di nessun tipo né nella loro regione né, tantomeno, nel loro collegio. Una schizofrenia così profonda e radicata da obbligare il rinvio di ogni decisione a dopo le elezioni regionali. Siamo ben lontani dalla situazione del 1955 quando l’ing. Valletta dichiarava, nell’entusiasmo generale, che la Fiat avrebbe costruito una centrale nucleare nel parco del Valentino per fornire energia ai propri impianti e a tutta la città di Torino. Ma siamo anche ben lontani dal 1987 quando oltre l’80% degli italiani , in un grande referendum popolare, si espresse contro il nucleare con la successiva decisione di quasi tutto il Parlamento di chiudere anche quelle esistenti.
Io sono stato fra i pochi che hanno votato a favore del nucleare. L’ho fatto in piena coscienza, per la convinzione che un Paese come l’Italia non potesse e non dovesse uscire da un settore in cui aveva investito tante risorse e in cui, tramite migliaia di tecnici e scienziati, aveva accumulato un’esperienza e posizioni di eccellenza invidiate nel mondo.
Di tutto ciò è rimasto poco o nulla. Non abbiamo più, checché se ne dica, un’industria capace di costruire una centrale. Abbiamo smantellato la più parte delle scuole specializzate in materia di tecnologie nucleari e gli studenti di ingegneria nucleare sono ridotti a poche decine in tutto il Paese. Per decenni infatti non avevano alcuna possibilità di trovare un lavoro in questo campo in Italia. Abbiamo infine cancellato tutte le strutture pubbliche deputate a controllare la sicurezza, dato che l’ultima licenza concessa risale al 1971 e non abbiamo più le competenze nelle istituzioni responsabili per le licenze e le procedure di costruzione. Abbiamo, in sintesi, distrutto quasi tutto il sapere scientifico, gestionale, industriale e istituzionale necessari per costruire una filiera nucleare.
Tutto ciò lo possiamo certo ricostruire. Se se ne vuole fare una scelta strategica dobbiamo però avere chiaramente in mente tempi e costi di questa operazione.
I tempi: dai 5,3 anni mediamente necessari per costruire le 160 centrali realizzate fra il 1965 e il 1976, si è passati ai 7,5 anni per le 260 centrale realizzate tra il 1977 e il 1988, a punte di circa 10 anni per le 28 centrali realizzate tra il 1996 e il 2000. Non meno significativo è il fatto che tra il 1970 e il 1990 si sono realizzate 17 centrali nucleari ogni anno, mentre tra il 1990 e il 2005 se ne sono costruite appena 1,7 centrali all’anno. Sarebbe necessario riflettere su questi dati e di capire le ragioni economiche che nell’Occidente tutto (a cominciare dagli Stati Uniti) hanno di fatto bloccato lo sviluppo nucleare. L’unica grande centrale in costruzione oggi in Europa al di fuori dalla Francia (precisamente in Finlandia) si trova di fronte ad aumenti dei costi e dei tempi di costruzione che non erano nemmeno immaginabili e che sono fonte di controversie giuridiche e finanziarie senza fine.
A volere essere seriamente ottimisti, non è pensabile, anche correndo, che una centrale nucleare possa entrare in esercizio prima di 10-12 anni, fra i tempi dei processi autorizzativi, quelli di costruzione, i più rigorosi controlli dei siti e il reperimento dei luoghi dove confinare le scorie radioattive.
Tutto ciò influisce pesantemente sui costi di costruzione delle centrali che, seguendo le iniziative in corso, sono fortemente crescenti nel caso del nucleare e sensibilmente in calo nel caso delle energie alternative.
A questo si aggiunge il prezzo del combustibile, scarso nell’offerta mondiale anche quando il numero di centrali attive è complessivamente stazionario, come negli ultimi anni. Teniamo inoltre conto che, nel caso dell’Italia, non solo non abbiamo barre di combustibile pronte, ma non abbiamo più alcuna catena nazionale per la produzione di elementi di combustibile.
Il nucleare è insomma una scelta tecnologica di grande complessità che richiede, per essere realizzata, una piena condivisione della collettività intera e la ricostruzione del sapere che abbiamo dilapidato, cominciando dall’incentivazione agli studenti del primo anno di fisica e ingegneria nucleare, ricostruendo i centri di ricerca, riorganizzando le imprese per costruire in Italia (anche se su licenza) almeno una parte dei componenti più qualificati delle centrali.
A questo si deve accompagnare una nuova organizzazione della Pubblica amministrazione dedicata alla definizione dei più rigorosi standard dell’individuazione dei siti, del controllo dei programmi di costruzione, del pieno rispetto dei criteri di sicurezza, del reperimento e dello stoccaggio dei materiali radioattivi ed, infine, del confinamento dei residui radioattivi e dello smantellamento delle centrali. Tutto si può fare, ma tutto ciò ha un costo enorme e margini di incertezza altrettanto grandi, soprattutto per un Paese che non è stato ancora in grado di risolvere il problema dei rifiuti radioattivi ospedalieri.
Non vedo, almeno fino ad ora, uno sforzo di mobilitazione in questo senso. Vedo piuttosto la volontà di scaricare sui vicini l’onere di affrontare un problema così delicato, affidando principalmente a incentivi finanziari da indirizzare direttamente ai cittadini il difficile compito di cambiare gli orientamenti dell’opinione pubblica.
Mi sembra quindi di dovere concludere che o si comincia davvero questa strategia complessa, difficile e di dubbio risultato economico o è meglio lasciare perdere. Quando si è perso un treno è molto faticoso corrergli dietro. O meglio lo si può fare ma bisogna correre molto forte.