Parole magiche e fatti. Se la famiglia è ridotta a una clava dalla politica
Parole magiche e fatti. Se la famiglia è ridotta a una clava dalla politica
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 3 ottobre 2010
Essendo l’ottavo di nove fratelli posso legittimamente affermare di essere nato in una famiglia numerosa. Anche se la mia infanzia va indietro di molti decenni mi ricordo benissimo come mio padre, impiegato di medio livello in una pubblica amministrazione, sottolineasse con vigore, senza tuttavia perdere la sua abituale serenità, che non esisteva in Italia alcun aiuto di alcun tipo a favore delle famiglie numerose. E, aggrottando le sopracciglia, aggiungeva che questo era un comportamento indegno di un Paese civile. Sono passati quasi sessant’anni e una delegazione dell’associazione delle famiglie numerose mi ha ripetuto le stesse identiche parole.
Qualche progresso invero è stato fatto, almeno in alcune zone del Paese, per quanto riguarda i servizi. Quasi tutti i bambini frequentano la scuola dell’infanzia e sono aumentati i posti ai nidi anche se solo pochi territori raggiungono l’obiettivo del 33% fissato dal trattato europeo di Lisbona e in alcune regioni si è ancora ben di sotto del 10%. Le leggi per la tutela della maternità sono buone, anche se poi le mamme e i papà non sono aiutati dalle imprese, a conciliare il lavoro e la famiglia. Il problema di una politica economica e fiscale a favore della famiglia è rimasto tuttavia quasi fermo ad allora.
Su questo tema si è infinitamente discusso e i proclami in favore della famiglia sono stati usati come una clava nella lotta politica senza che alcuna decisione seria venisse presa in materia. Il fatto che la politica della famiglia sia prigioniera di frasi fatte e di slogan elettorali ne ha reso ancora più difficile la soluzione, perché ognuno ha voluto dimostrare all’elettorato che la propria ricetta era la migliore e che tale ricetta poteva riassumersi in una parola magica come detassazione, quoziente famigliare o sussidio diretto.
A forza di slogan e di parole magiche si può perdere di vista l’obiettivo, che è quello di offrire un aiuto alle famiglie tenendo conto del numero dei componenti e delle reali condizioni economiche di ciascuna di esse. E di fare in modo che la scelta di avere dei figli non faccia diminuire troppo il livello di vita degli altri membri della famiglia.
Anche strumenti che pure in teoria sembrerebbero i più adatti non riescono tuttavia a raggiungere questi obiettivi articolati. Ci si accorge ad esempio che il così detto quoziente famigliare (cioè la divisione dell’imponibile pur con adeguati coefficienti, per il numero dei membri della famiglia) non porta alcun beneficio a coloro che, avendo redditi troppo bassi, non pagano alcuna imposta o sono sottoposti ad aliquote molto basse. Si calcola infatti che, applicando il quoziente familiare vigente in Francia al caso italiano, si avrebbe un calo del gettito Irpef di circa sei miliardi che andrebbe soprattutto a favore del trenta per cento delle famiglie più ricche.
Dati questi difetti, gli stessi fautori del coefficiente familiare propongono emendamenti e correttivi di estremo buon senso, ponendo ad esempio un tetto massimo di reddito a cui il quoziente possa essere applicato, in modo da escludere le famiglie più ricche. E, altrettanto saggiamente, si sono proposte variazioni dei coefficienti in modo da attenuare gli effetti distorcenti di questa proposta così evocativa e per tanti aspetti positiva.
Altri pensano invece (e io sono tra questi) che le risorse a servizio delle famiglie debbano essere indirizzate soprattutto verso un contributo alla nascita e alla crescita dei figli.
Sono stati fatti i conti che con i sei miliardi di cui si parlava in precedenza si può dare un assegno di 2.000 euro all’anno per ogni bambino da zero a dieci anni e, se si mette un tetto al reddito, si può dare di più (intorno ai 2500 euro) a partire dal terzo figlio. Se poi, in vista della grandezza di questo obiettivo, si togliessero detrazioni su cose certo utili ma non essenziali, si potrebbe cominciare ad estendere questo contributo oltre i dieci anni perché i figli debbono essere aiutati fino all’età in cui ci si aspetta che siano autosufficienti.
Non voglio naturalmente cadere nell’errore che ho stigmatizzato prima cercando di imporre uno slogan su un altro, ma chiedo solo che il dibattito parta dagli obiettivi che una politica di aiuto alle famiglie deve perseguire e discuta apertamente delle conseguenze e dei costi delle diverse proposte. Sono evidentemente consapevole come una nuova politica familiare non possa immediatamente essere messa in atto in una congiuntura economica in cui si sta procedendo a tagli di spesa in tutte le direzioni. Mi sembra tuttavia che proprio questo sia il momento per fare riflettere gli italiani in modo sereno e concreto sulla grande importanza, per il futuro del nostro paese, di una politica familiare e sulla conseguente necessità di preparare oggi proposte condivise che dovranno essere progressivamente messe in atto via via che le condizioni economiche lo permetteranno, cominciando dai bisogni delle sempre più numerose famiglie a basso reddito per le quali l’aiuto economico ha molta più rilevanza che per le famiglie più abbienti. Continuare con la guerra delle definizioni vuol dire che fra sessant’anni saremo allo stesso punto. Cercare un accordo su dati certi e concreti vuol dire potere cominciare passo per passo una riforma di cui tutti sentiamo la necessità.
Penso infatti che per far crescere i figli sia un servizio all’intera comunità, un servizio che perciò merita ed esige, anche nelle difficoltà della crisi, il contributo dell’intera comunità.