Questa è l’ora di tornare a credere nell’Europa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 31 dicembre 2010
Non si può certo dire che l’economia mondiale sia andata male nell’anno che volge al termine. Il tasso di crescita globale ha quasi raggiunto il cinque per cento: uno dei livelli più alti della storia economica.
Questo dato è però il risultato di due andamenti del tutto discordanti fra di loro. Le economie emergenti sono cresciute alla fantastica velocità del 7,4%, mentre le economie dei paesi sviluppati hanno progredito del 2,6%, un progresso certamente deludente per un sistema economico che intendeva uscire da una lunga e pesante crisi.
Il buon andamento delle economie emergenti è una bella notizia perché non riguarda solo l’Asia ma si estende all’America Latina e, finalmente, tocca persino l’Africa, anche se saranno necessari decenni di continua crescita perché il continente dimenticato possa offrire ai suoi abitanti condizioni di vita mediamente decenti.
Quest’andamento a doppio binario continuerà anche nel prossimo anno. I tre quarti della crescita reale avranno origine dalle economie emergenti ( metà solo da Cina e India) e un quarto dai paesi a più elevato livello di reddito. Il mondo si è ormai rovesciato e, con ogni probabilità, questo fenomeno tenderà ad accelerarsi in futuro col rafforzarsi del peso dei nuovi protagonisti dello scacchiere mondiale. Anche se la dimensione dell’economia cinese è ancora assai inferiore a quella degli Stati Uniti, il suo contributo alla crescita sarà nel prossimo anno tre volte più grande di quello americano, mentre la spinta dell’India sarà più forte di quella dell’Europa e del Giappone messi assieme.
Naturalmente questi nuovi giganti hanno di fronte a loro enormi problemi perché non potranno continuare a fondare il proprio sviluppo sugli investimenti ( in Cina non lontani dal 50% del PNL) e saranno obbligati ad aumentare i consumi anche tramite una progressiva crescita dei salari e delle prestazioni di carattere sociale.
Venendo più vicini a noi, lo sviluppo dell’economia europea rimarrà nel prossimo anno inferiore al 2% e il livello della disoccupazione si manterrà ancora vicino al 10%, un dato che apre ben poche prospettive alla generazione che si affaccia al mercato del lavoro.
Anche nell’economia europea la media è tuttavia la somma di dati fra di loro contrastanti: la Germania continuerà a marciare al ritmo del 3%, mentre l’Italia, mantenendosi intorno all’1%, rimarrà nello scalino più basso. In continuazione di quanto è avvenuto quest’anno, ci attendiamo che la parte più dinamica della nostra economia sia ancora costituita dalle esportazioni, mentre rimarranno deboli i consumi pubblici e privati, a causa dell’elevato livello di disoccupazione e della necessità di limitare il deficit del tesoro attraverso lo stretto controllo della spesa pubblica.
Alla fine del prossimo anno la dimensione della nostra economia rimarrà quindi ancora notevolmente inferiore rispetto ai livelli raggiunti prima della crisi economica e ci vorranno parecchi anni per ritornare al punto di partenza.
Queste sono le previsioni che si possono scrivere oggi. La realtà potrà tuttavia essere mutata nel bene e nel male dalle decisioni politiche che saranno prese nel corso dell’anno. Nell’area dell’Euro i punti interrogativi sono ancora tanti.
Da un lato, dopo infiniti colpevoli ritardi, sono stati finalmente messi a punto strumenti più efficaci per fare fronte alla crisi dei paesi più fragili,
Dall’altro lato il calendario politico tedesco è caratterizzato da una serie quasi ininterrotta di elezioni regionali e noi sappiamo per esperienza quanto la Cancelleria germanica sia spinta da questi eventi a frenare il progresso della politica comune.
Inoltre per i prossimi tre anni le presidenze di turno dell’Unione Europea saranno nelle mani di paesi minori, a partire da una presidenza ungherese che assume questo ruolo dopo una serie di decisioni alquanto bizzarre e certamente discutibili sia nel campo dell’economia che della trasparenza e della libertà dei media.
Questa serie di presidenze “minori” potrebbe indebolire ulteriormente la politica europea o potrebbe, all’opposto, lasciare spazio ad un rafforzamento delle istituzioni comuni decise dal trattato di Lisbona, tedeschi permettendo.
Dipenderà quindi ancora una volta dal grado di coesione delle politiche europee se il nostro continente continuerà ad essere il fanalino di coda dello sviluppo mondiale o se ci metteremo almeno in linea con gli Stati Uniti che, pur essendo all’origine della crisi, ne stanno uscendo un po’ meglio di noi.
L’unica cosa certa è che i ritmi di sviluppo dei paesi emergenti appaiono in ogni caso irraggiungibili. Si è aperto davvero un nuovo capitolo della storia dell’umanità e non è detto che sia peggiore di quello precedente, almeno se ci obbligherà a riflettere non solo sulla quantità ma anche sulla qualità del nostro sviluppo.