L’America cambia rotta e l’Europa non può più permettersi di restare divisa
Divisi al confronto – Ma l’Europa non pensi di delegare il suo futuro
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 novembre 2016
Dopo lo choc delle elezioni americane siamo entrati nella delicata fase in cui, dai tentativi di spiegazione dell’inatteso risultato, si sta passando alla concreta riflessione sui programmi che costituiranno le linee guida della Presidenza Trump.
Le spiegazioni dei risultati elettorali si sono soprattutto concentrate sulla frustrazione e la paura di una consistente parte della classe media, sulle delusioni nei confronti dell’andamento dell’economia, sui limiti della globalizzazione e sulla crescente differenziazione dei redditi fra i cittadini. Tutto giusto, ma questi erano i temi classici che in passato conducevano all’alternanza fra diversi partiti politici. Negli ultimi tempi invece, in tutti i sistemi democratici, le differenze fra i partiti sono fortemente diminuite e i programmi si sono standardizzati e omogeneizzati. In Europa questo ha dato spazio alla formazione di un crescente numero di governi di coalizione. Negli Stati Uniti, la candidata del partito democratico, pur tradizionalmente posizionata a sinistra, è stata messa in croce in quanto rappresentante della finanza e del big business mentre il suo antagonista, invece di convergere al centro come lei, ha scelto una posizione estremista.
Questo ci dice che, quando le insoddisfazioni degli elettori ricevono una risposta non adeguatamente differenziata da parte dei partiti tradizionali, in Europa si ha come risultato la crescita dell’astensionismo e dei nuovi partiti estranei al sistema. Negli Stati Uniti lo spazio è stato invece occupato non da nuovi partiti ma da un candidato altrettanto estraneo al sistema.
L’insoddisfazione provoca cioè l’attesa di alternative che, anche se prive di programmi coerenti e concreti, mandano tuttavia un messaggio di cambiamento radicale. Non si spiegherebbe in altro modo il rilevante consenso raccolto alle primarie del partito democratico americano da parte di un candidato che si definiva “socialista” come Bernie Sanders e il fatto che una parte sostanziosa dei suoi sostenitori non abbia poi votato per Hillary Clinton che, in teoria, avrebbe dovuto essere a loro ben più vicina di Trump.
Pensando al round di elezioni europee che ci attende, le elezioni americane ci inducono quindi a porci l’interrogativo se la mancata differenziazione tra i partiti tradizionali favorirà l’astensionismo e i nuovi partiti o sarà invece la differenziazione sociale a costringerli a radicalizzarsi, differenziandosi fra di loro.
Questo sarà il problema europeo dei prossimi mesi. Negli Stati Uniti, invece, si parla già di squadre e di programmi e la discussione sarà complessa e lunga perché lungo è l’intervallo fra le elezioni e l’insediamento del nuovo presidente, fissato per il prossimo 20 gennaio.
Intanto Trump ha messo le mani avanti, assicurando ad Obama di volere essere il Presidente di tutti gli americani ma lanciandogli contemporaneamente l’invito a non prendere alcuna decisione di politica estera per tutto il restante periodo del suo mandato.
E’ da notare a questo proposito che, mentre Trump ha dimostrato una certa apertura nei problemi di politica interna facendo anche qualche concessione alla riforma sanitaria di Obama, ha voluto rendere chiaro che, nel campo della politica internazionale il motto “America First” guiderà tutta la sua azione. Il che significa forte protezionismo, durezza nei confronti del mondo islamico e uno sforzo militare crescente, unito alla richiesta di un parallelo maggiore impegno a tutti i paesi della NATO.
In politica estera nessun accenno, almeno fino ad ora, ad alcun cambiamento rispetto a quanto ribadito in campagna elettorale e, per non essere equivocato, il monito ad Obama di non impicciarsi più di questi temi. Il viaggio in Europa programmato dal Presidente in carica per i prossimi giorni diventa quindi una semplice visita di cortesia e di addio agli alleati europei, dei quali Obama si è ben poco occupato durante la gran parte del suo mandato, per accorgersi poi (solo negli ultimi tempi e solo parzialmente) che un’Europa debole, divisa e unicamente obbediente non giova nemmeno agli Stati Uniti.
Nei confronti dell’Europa vi sarà quindi una politica di Trump che chiederà a noi più impegno militare e più risorse finanziarie, anche se nessuna ipotesi viene espressa riguardo ai modelli organizzativi della NATO e al mantenimento del cospicuo numero di truppe americane sul suolo europeo, dato il messaggio distensivo nei confronti della Russia e il ripetuto, e per me corretto, convincimento che, senza un positivo rapporto con la Russia stessa, non sia possibile risolvere né il conflitto ucraino né quello siriano.
Vi sono in ogni caso tutti gli elementi per pensare che il periodo in cui la sicurezza dell’Europa era interamente affidata all’ombrello americano sia inesorabilmente terminato.
Il dramma è che questo cambiamento coglie l’Unione Europea in uno dei peggiori periodi della sua storia, incapace di prendere decisioni e divisa su tutte le politiche fondamentali.
Mi auguro però che la nuova politica di Trump serva almeno a farci capire che il futuro è tutto e solo nelle nostre mani e che, continuando ad agire separati, non possiamo essere che strumenti passivi di una politica americana che si presenta sempre più assertiva. Il motto “America First” significa infatti che non vi possono essere comprimari perché l’America di Trump non accetta di essere prima a pari merito.