Le risorse del PNRR per garantire ai giovani un salario decente

La risposta necessaria ai salari bassi

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 13 luglio 2024

Mentre nel quadro politico di questo mondo turbolento abbiamo ogni giorno novità ed eventi imprevisti, nel campo economico di novità ne abbiamo ben poche. Sembra che tutto proceda nella normalità. La crescita del PIL mondiale sarà anche quest’anno intorno al 3%, cioè nello stesso ordine dell’anno scorso, con una media dell’1,5% nei paesi industrializzati e del 3,9% nei paesi emergenti. Anche tra i grandi protagonisti dell’economia globale i rapporti di forza corrono sui binari tradizionali. La Cina crescerà poco più del 5%, gli Stati Uniti metà della Cina e l’Unione Europea metà degli Stati Uniti. Perfino la Russia, pur impegnata in una sciagurata guerra, avrà un tasso di crescita positivo.

In parallelo continua la diminuzione dell’inflazione, anche se con un ritmo più rapido in Europa rispetto agli Stati Uniti. Per non turbare questo pigro ma tranquillo andamento dell’economia, la Banca Centrale Europea ha abbassato di un modesto 0,25% il tasso di interesse e probabilmente si limiterà a replicare questa prudente decisione anche nel prossimo autunno.

In questo quadro l’Italia, recuperato dopo il Covid una parte del cammino perduto nel decennio precedente, crescerà quest’anno intorno a 0,9%. Con questo risultato, certamente modesto, ma leggermente migliore rispetto alle previsioni, abbiamo superato del 3,6% il nostro PIL del 2019. Tuttavia, unico tra i grandi paesi europei, non abbiamo ancora raggiunto il livello del lontano 2008.

Negli ultimi anni l’economia italiana presenta caratteristiche strutturali assai diverse da quelle degli altri paesi. La grande anomalia riguarda il mercato del lavoro. Da un lato infatti abbiamo la buona notizia che l’occupazione è notevolmente aumentata nell’ultimo anno, ma la crescita dell’occupazione è superiore a quella del PIL. Il che significa che la produttività del sistema economico non è in aumento ma in diminuzione e che la nuova occupazione si concentra soprattutto in settori poveri, con un basso livello di produttività.

Questo in conseguenza del fatto che, come ha recentemente osservato il Governatore della Banca d’Italia, la nuova occupazione si è soprattutto concentrata sui servizi di basso valore aggiunto, con una debolezza del settore manifatturiero, caratterizzato da un livello di produttività più elevato.

A questo si aggiunge che il numero dei nuovi occupati si accompagna alla diminuzione delle ore lavorate pro-capite. Ancora più significativa risulta l’osservazione del Governatore riguardo alla media dei salari italiani che, nonostante qualche recente aumento, risultano ancora ad un livello così basso da rendere sostanzialmente necessaria la loro rivalutazione. Un aumento che, almeno entro certi limiti, è oggi possibile senza il pericolo di tensioni inflazionistiche. La drammaticità del problema salariale italiano è confermata dai dati dell’OCSE, secondo i quali i salari reali italiani sono diminuiti del 6,9% rispetto al 2019. Il che purtroppo non ci deve stupire, dato che, solo nel biennio 2022-2023 i prezzi al consumo sono aumentati del 13,8%.

Questi semplici numeri spiegano il fatto, apparentemente paradossale, che all’aumento dell’occupazione si accompagna la crescita della povertà assoluta in tutte le aree del paese. In troppi casi, anche per l’aumento del costo degli affitti, il salario non è infatti più sufficiente per fare uscire la famiglia dalla povertà.

Il problema salariale è quindi prioritario, urgente e, nello stesso tempo, impossibile da affrontare con una singola misura. Occorre un progetto di politica economica organico e complessivo.

I dati esposti in precedenza ci obbligano a prendere prima di tutto in considerazione il controverso capitolo del salario minimo.

Si tratta di un traguardo raggiunto dalla quasi totalità dei paesi europei e per noi necessario. Dobbiamo essere però consapevoli che, da solo, non è in grado di riportare al livello dovuto il mondo del lavoro italiano.

Abbiamo infatti un tasso di occupazione più basso della media europea, una quota troppo elevata di giovani fuori dal sistema di lavoro e di istruzione (16,1% contro l’11,2%), una quota fuori misura di part-time involontario (10,2% contro il 3,6%) e un insufficiente grado di istruzione e preparazione professionale.

Per rendere il tutto più assurdo, questi comportamenti si accompagnano ad una crescente emigrazione di lavoratori ad alta e altissima specializzazione, dal settore industriale a quello sanitario, dalla ricerca scientifica all’insegnamento.

Un’emigrazione che viene alimentata dalle più elevate remunerazioni dei paesi di accoglienza e a cui si può solo porre riparo nel tempo elevando il livello di produttività e di efficienza del nostro paese.

Non quindi bonus o sussidi, ma una mobilitazione nazionale di lungo periodo per spingere la società e il sistema produttivo italiano verso quella maggiore efficienza necessaria per invertire la drammatica perdita del potere d’acquisto dei nostri salari.

Si sarebbe potuto dare inizio al cambiamento di rotta indirizzando verso questa direzione una quota rilevante delle risorse del PNRR.

La realtà politica e sociale del paese ci sta invece spingendo ancora una volta verso una disordinata risposta alle mille pur legittime richieste.

Dobbiamo invece essere consapevoli che solo una radicale inversione di rotta, che vada ben oltre le contrattazioni salariali, potrà, dopo anni di severo impegno, garantire un salario almeno decente alle nuove generazioni. La via che stiamo percorrendo può portare solo ad un’ulteriore nostra emarginazione.

 

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