L’Europa non è un bancomat: non c’è democrazia senza rispetto delle regole
Il caso ungherese: i principi di democrazia e le leggi di mercato
Articolo di Rmano Prodi su Il Messaggero del 11 luglio 2021
Per tutto il lungo periodo che ha seguito la seconda guerra mondiale, è stato istintivo collegare strettamente l’economia di mercato alla democrazia.
Nella nostra mente ogni eccezione a questo legame poteva essere solo limitata e temporanea. Il crollo dell’Unione Sovietica, che aveva tentato di affermare la propria potenza attraverso un regime autoritario, è apparso, almeno per un certo periodo di tempo, la solenne conferma di questa semplice e condivisa realtà.
La fiducia nella forza della democrazia era tale che era ormai diffusa opinione che anche la strada cinese di una crescita, fondata su un modello autoritario, sarebbe stata limitata alla fase in cui il paese doveva raggiungere un livello di benessere più diffuso.
Nei numerosi colloqui bilaterali con i massimi dirigenti cinesi, che ho avuto occasione di compiere nel decennio a cavallo del secolo, non si discuteva certo di convergenza fra i due diversi sistemi economici ma, almeno su singoli punti, le prospettive di avvicinamento erano maggiori rispetto al cammino opposto, fino a fare pensare ad una possibile futura convergenza, seppure lontana nel tempo.
Successivamente il processo si è invertito e, non solo in Cina, ma in una crescente parte del mondo, democrazia e mercato si sono tra di loro separati, con un processo che ha coinvolto un cospicuo numero di paesi, dalle Filippine alla Russia, dalla Turchia al Brasile, toccando quasi tutti i continenti.
Il fatto straordinario, e sotto certi aspetti non previsto, è che questo processo di commistione fra mercato e autoritarismo ha messo radice anche in Europa e sta rendendo molto più difficile il cammino di un’istituzione fondata non solo sul libero mercato, ma su robuste basi democratiche. Due pilastri fra di loro inseparabili in Europa.
Da ormai parecchi anni in Ungheria e in Polonia, in modo progressivamente pervasivo, vengono invece calpestati i fondamentali diritti democratici. Le politiche dei due paesi hanno proceduto su binari paralleli. Prima hanno cominciato con un progressivo controllo sui media, obbligando a chiudere quelli contrari al regime.
Poi si è agito sul sistema giudiziario, quindi sulle istituzioni culturali a partire dalle università, fino al controllo di ogni aspetto della vita collettiva.
Una crociata antidemocratica che ha accolto le più ampie adesioni in Ungheria perché, al comune appello alle politiche anti-migratorie, si è aggiunta la nostalgia del passato imperiale.
Da parte di pur autorevoli commentatori si è tratta la conseguenza che sia stato un errore allargare l’appartenenza all’Unione a paesi prima satelliti dell’Unione Sovietica, come se oggi fosse preferibile avere la Polonia e l’Ungheria nelle stesse condizioni in cui è oggi l’Ucraina!
E come non si dovesse tenere conto che, nel grande processo di arretramento della democrazia nel mondo, solo l’Unione Europea sia stata capace di rafforzarla ed esportarla attraverso un processo di convinzione, senza alcuna azione militare, a differenza di quanto era avvenuto in tanti altri casi, a partire dalla guerra in Iraq.
Credo perciò che questo processo di messa in sicurezza di tutta l’Europa debba essere completato, non certo con un ritorno al passato, ma estendendolo ai residui paesi dell’ex Jugoslavia e all’Albania.
Un processo di transizione alla democrazia che non può essere certo messo in atto ovunque con la stessa rapidità, dato che esige una trasformazione che, proprio per la lunga durata della dominazione Sovietica, richiede un lungo periodo di tempo.
Nell’Unione Europea, come hanno con fermezza ripetuto il presidente del Parlamento europeo e la presidente della Commissione, abbiamo tuttavia fondamentali differenze e diverse possibilità di intervento rispetto alle deviazioni che sono intervenute nelle altre parti del mondo.
La differenza è abissale: Ungheria e Polonia hanno liberamente e solennemente aderito ad un’Unione che ha come fondamento la libertà e l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini e hanno accettato che questi diritti siano garantiti da una Corte di Giustizia europea, le cui sentenze prevalgono sulle decisioni dei loro tribunali.
Di conseguenza i responsabili delle istituzioni europee non solo hanno il diritto, ma hanno anche il dovere di fare rispettare le condivise regole che costituiscono le basi fondamentali di un’Unione a cui tutti i paesi membri hanno liberamente aderito.
Non si tratta in questo caso di applicare sanzioni, ma semplicemente di fare rispettare le norme esistenti a livello comunitario.
La sospensione del pagamento dei fondi comunitari sui quali si è fondata la straordinaria crescita di questi paesi, non può essere elencata tra le sanzioni, ma si colloca nell’ambito dell’applicazione delle regole che stanno alla base di ogni organizzazione politica alla quale si è scelto di appartenere.
Non è certamente una decisione semplice, date le complicazioni procedurali che guidano l’Unione Europea, ma è ormai diventato chiaro a tutte le principali forze politiche che, in Polonia e Ungheria, i finanziamenti europei non sono solo serviti a sviluppare il paese, ma sono stati usati per favorire le persone e le istituzioni legate al regime e per indebolire le istituzioni democratiche.
L’Unione Europea non è un “bancomat” da cui si possono semplicemente prelevare le risorse ma, finalmente di nuovo insieme agli Stati Uniti, l’Europa è il baluardo della democrazia che ancora resiste nel mondo.
Tuttavia non vi è democrazia senza il rispetto delle regole che ne sono il fondamento. L’obbligo di farle rispettare non è “un atteggiamento colonialista” come ha impudentemente affermato il primo ministro ungherese, ma una semplice conseguenza degli impegni a cui Polonia e Ungheria si sono obbligate entrando a far parte dell’Unione Europea.