Londra in crisi: come è dura lasciare l’Europa
Londra in crisi: Come è dura lasciare l’Ue, la Brexit ce lo insegna
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 22 luglio 2018
Il popolo inglese, nonostante la sua plurisecolare esperienza democratica, non si era forse mai trovato di fronte ad un problema così complesso di applicazione della democrazia come la Brexit.
Nel giugno di due anni fa il referendum popolare ha deciso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea con la ferma convinzione che gli adempimenti per mettere in pratica il divorzio sarebbero stati rapidi e semplici. E molti pensavano che, al massimo, gli ostacoli al negoziato sarebbero arrivati da un’Europa divisa e non certo dalla Gran Bretagna.
Le cose sono andate in senso del tutto opposto: l’Unione Europea ha inaspettatamente mantenuto una linea unitaria sotto l’abile guida del negoziatore Michel Barnier, mentre in Gran Bretagna sono cominciate liti furibonde tra chi voleva la rottura totale e chi voleva invece conservare rapporti ancora stretti con l’Unione.
Tensioni difficilissime da mediare perché la divisione fra gli uni e gli altri attraversa tanto i conservatori quanto i laburisti in modo così profondo per cui non sembra possibile costruire una strategia condivisa.
Per tutto il lungo periodo di trattative il governo britannico ha proceduto quindi prendendo tempo e rinviando la scelta di una linea precisa. Basti riflettere sul fatto che, nell’ultimo anno, Michel Barnier ha potuto incontrare il negoziatore britannico solo per qualche ora nonostante i problemi sul tavolo richiedessero mesi di colloqui intensi e diretti.
La data per definire quali saranno i futuri rapporti fra Gran Bretagna e Unione Europea è però stabilita per la fine del prossimo ottobre. A poche settimane da questa scadenza il Primo Ministro britannico si trova in una posizione impossibile. La sua proposta di una “soft Brexit”, cioè di un’uscita dall’Unione meno traumatica possibile, ha spaccato il partito conservatore provocando addirittura le dimissioni del ministro degli Esteri Boris Johnson e di David Davis, capo negoziatore britannico e sostenitore di una linea di rottura con l’Unione.
Nonostante queste dimissioni il Primo Ministro Theresa May non è in grado di imporre la sua linea perché la rottura nel suo partito appare insanabile. Altrettanto difficile si dimostra anche l’appoggio dei laburisti favorevoli alla “soft Brexit” perché essi, forti dei sondaggi che li vedono vincitori, vogliono invece nuove elezioni. Questa ipotesi non solo è ovviamente avversata dal partito conservatore ma tutti gli esperti pensano che anche una nuova consultazione elettorale non renderebbe possibile il raggiungimento di una linea comune sulla Brexit, dato che le divisioni attraversano entrambi i partiti.
Senza contare che le attuali linee negoziali del governo britannico, che si sintetizzano nella proposta di rimanere nel mercato unico (con una specie di Unione doganale) per i beni ma non per i servizi, è del tutto inaccettabile nell’Unione Europea. Non solo per l’impossibilità di definire il valore dei servizi contenuti in un bene ma anche per le contraddizioni che si verrebbero a creare in conseguenza della mancanza di regole comuni. Lo ha ben esemplificato Michel Barnier dicendo che non sarebbe in alcun modo possibile vedere adottati in Gran Bretagna pesticidi o modificazioni genetiche proibiti nell’Unione e lasciare poi liberamente importare in Europa la carne dal Regno Unito.
Nel frattempo la possibilità che arrivi il 29 marzo 2019 (data fissata per la definitiva uscita dall’Unione) senza un accordo di alcun tipo terrorizza tutto il mondo economico perché confini, dogane, controlli e barrire danneggerebbero in modo drammatico l’economia britannica. Già da ora escono valanghe di studi e rapporti volti a dimostrare che, negli ultimi mesi, questa prospettiva ha già fatto perdere velocità alla crescita dell’economia del Regno Unito che, dai primi posti degli scorsi anni, sta ora affiancando l’Italia tra i fanalini di coda.
Il dibattito politico in Gran Bretagna sta quindi raggiungendo limiti surreali: tutti sono d’accordo che si è approvato un referendum senza valutarne a pieno le conseguenze, quasi tutti sono d’accordo che l’attuale primo ministro non è stato in grado di gestire un problema di una così grande rilevanza ma vi è un accordo altrettanto generale sul fatto che una soluzione diversa da quella traumatica è difficilissima, nonostante l’apertura dei negoziatori europei per affrontare in modo costruttivo il problema dei confini che si verrebbero a creare fra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord in caso di separazione.
Tanto è complicata la situazione politica oltremanica che, nei giorni scorsi, si è cominciato a dibattere pubblicamente su un’ipotesi che prima si discuteva solo nei circoli intellettuali: l’ipotesi di ripetere il referendum. Una proposta che mi sembra quantomeno bizzarra e che, per evitare che si riproduca lo stallo del referendum passato, interrogherebbe gli elettori su tre scelte, cioè se rimanere nell’Unione, se accettare la linea della May per un’uscita dolce o se uscire senza accordo. Tuttavia anche su questa proposta (che continua a sembrarmi assai discutibile) occorre un’approvazione del Parlamento, ritenuta oggi non percorribile.
Difficile quindi fare previsioni su come andrà a finire la Brexit. Per ora l’unica conclusione che si può trarre è che l’uscita dall’Unione Europea non è facile e conveniente nemmeno per un paese imperiale e democratico come la Gran Bretagna.