Londra resti in Europa, ma non a costo di distruggerla
Referendum Brexit
Le condizioni di Londra che sviliscono l’Europa
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 7 febbraio 2016
La data del referendum sull’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (la così detta Brexit) non è ancora stata stabilita ma i negoziati in corso fra il governo inglese e le autorità di Bruxelles manifestano già i contenuti ed i limiti di questa trattativa.
Il primo ministro David Cameron è ovviamente partito per ottenere il massimo delle concessioni, in modo da facilitare il voto favorevole dei suoi concittadini. Cameron chiede un voto per restare perché è ben cosciente che l’uscita dall’Unione Europea sarebbe un evento disastroso per l’economia britannica. Egli è evidentemente altrettanto consapevole che, per guadagnare questo voto, deve ottenere molto da Bruxelles. Ha chiesto perciò in primo luogo forti misure rivolte a facilitare il funzionamento del mercato comune, misure sulle quali tutti sono sostanzialmente d’accordo o, riguardo alle quali, si possono comunque trovare possibili convergenze.
A queste richieste ne sono state tuttavia aggiunte altre ben più pesanti. Si tratta di richieste che tendono non solo a confermare le attuali differenze ma a ridurre per sempre ed in modo definitivo gli obiettivi di lungo periodo dell’Unione Europea.
Mi riferisco in primo luogo alla limitazione dell’accesso al welfare britannico per i cittadini europei che risiedono nel Regno Unito per un periodo inferiore ai quattro anni e ad un sostanziale diritto di veto delle decisioni della zona euro che hanno un impatto sul resto dell’Europa (in modo da proteggere gli interessi della City).
Le richieste che hanno un più profondo significato politico riguardano tuttavia il limite assoluto ad ogni futura maggiore integrazione (il così detto no ad un’unione più stretta) e la possibilità di intervento dei parlamenti nazionali nei confronti delle decisioni prese dalle autorità di Bruxelles.
È doveroso sottolineare che queste richieste cambiano la natura e le prospettive che stanno alla base dell’Unione Europea. Pensiamo in primo luogo alla sostanziale diminuzione di potere che avrebbe il parlamento europeo. Una diminuzione ben grave, soprattutto pensando alle battaglie che si erano combattute per la sua costruzione ed il progressivo rafforzamento delle sue prerogative.
Riflettiamo inoltre sul fatto che l’esclusione di ogni passo nella direzione di un’unione più stretta porta alla cancellazione di una qualsiasi ipotesi di politica estera e difesa comune.
La posizione britannica è chiaramente riassunta dalle parole del ministro degli Esteri George Osborne, che a Roma ha dichiarato che si può avere “una UE prospera ma in cui gli Stati europei non si sentono obbligati a prendere parte ad ogni progetto europeo”.
Non solo un’Europa a più velocità (che già abbiamo) ma una vera e propria Europa alla carta che non può che finire in una semplice unione doganale.
Siamo cioè di fronte a una nuova idea dell’Europa, totalmente diversa non solo da quella dei padri fondatori ma dagli obiettivi largamente condivisi fino a tempi recenti. Non si tratta più di operare per raggiungere insieme obiettivi comuni ma per tenere insieme gli interessi economici di soggetti che hanno obiettivi diversi.
I punti di forza dei negoziatori britannici sono naturalmente due. Il primo è che essi si trovano di fronte a un’Europa già frammentata dalla crisi economica e dal dramma dell’immigrazione. Il secondo è dato dal prestigio della Gran Bretagna stessa, non solo per la sua forza economica ma per le sue tradizioni diplomatiche e per il suo ancora esistente ruolo nella politica mondiale.
Nessuno è perciò interessato a fare uscire Londra dall’Unione ma dobbiamo tuttavia essere ben consapevoli che il prezzo chiesto dalla Gran Bretagna per rimanere comporta necessariamente un cambiamento radicale del concetto e delle prospettive dell’Unione stessa.
Il presidente del consiglio dell’UE, il polacco Donald Tusk (certamente per incoraggiare il buon esito delle trattative) ha sintetizzato gli obiettivi comuni dell’Europa nella “fiducia e nella comprensione reciproca fra i popoli che vivono in società aperte e democratiche e che condividono un comune patrimonio di valori universali“.
Una dichiarazione perfetta ma che si adatta altrettanto perfettamente anche ai nostri rapporti con gli Stati Uniti o con la Nuova Zelanda.
L’andamento dei negoziati ci mette quindi di fronte a due scelte entrambe piene di rischi, dei quali si deve avere coscienza ben precisa.
Due osservazioni ulteriori. La prima: da parte britannica si è giustamente sottolineato che la mancanza di una forte unione economica ha impedito la nascita di una Google europea. A questo proposito voglio solo ricordare che nessuna Google può nascere in Europa se non si ha anche una forte coesione politica. Dividere la forza economica da quella politica è una pura illusione e non dovrebbe essere propria di un paese così concreto come la Gran Bretagna.
A conclusione di queste riflessioni conviene perciò ricordare che noi tutti vogliamo la Gran Bretagna saldamente protagonista in Europa ma non a costo di non avere più l’Europa.