Nessuno può guardarci dall’alto in basso
I deficit di USA, Inghilterra e Spagna.
Nessuno può guardarci dsll’alto in basso.
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 21 febbraio 2010
Da quando è cominciata questa lunga crisi economica sono entrati in crisi anche coloro che per professione commentano, analizzano e fanno previsioni sull’economia. In primo luogo perché il crollo è giunto quasi totalmente imprevisto, anche se molti si sono affrettati a dire che già l’avevano messo in conto, semplicemente perché avevano scritto che gli squilibri esistenti non potevano durare all’infinito. E non era certo difficile dirlo. Le contraddizioni e le divergenze nel dibattito di oggi trovano tuttavia origine soprattutto nel fatto che la lunghezza e la profondità della crisi si accompagnano a cambiamenti del tutto imprevisti.
Qualsiasi siano le caratteristiche, i tempi e le modalità della ripresa emerge infatti una perdita di peso e una netta diminuzione della libertà di movimento degli Stati Uniti. Il costo dello sforzo militare che da ormai molti anni è crescente in ogni parte del mondo sommato al costo del salvataggio del sistema finanziario e delle riforme promesse dal presidente Obama, hanno portato il deficit americano verso dimensioni insostenibili (superiori al 10%) anche da parte di un paese che possiede la moneta che è ancora il punto di riferimento dell’economia mondiale.
Attraversando l’Atlantico si incontra un’Europa che complessivamente ha le carte più in ordine, con un deficit medio poco più della metà di quello degli Stati Uniti, ma con differenze enormi tra paese e paese.
Si passa da un -3,6% della Germania, al -5,2% dell’Italia al -12,3 della Grecia e della Gran Bretagna, fino a oltre il -13% dell’Irlanda.
Queste disparità hanno naturalmente attirato l’attenzione sul paese che unisce un deficit pesantissimo ad un debito pregresso altrettanto pesante, cioè la Grecia.
Come succede in questi casi è partita la speculazione, sono partite le previsioni negative rispetto al futuro e, in modo assolutamente immotivato, si è arrivati a prevedere perfino una prematura fine dell’Euro. Nulla di tutto questo accadrà perché, nonostante la critica situazione delle istituzioni europee, alla fine si è trovato un principio di accordo per venire incontro alle emergenze della Grecia.
L’Euro è infatti uno strumento troppo prezioso per abbandonarlo di fronte ai pur esecrabili errori dei governi dei paesi che ne fanno parte.
Questa altalena di eventi ha tuttavia portato a variazioni nei cambi anch’esse impreviste e, apparentemente, del tutto irrazionali. Fino a pochissimi mesi fa non solo l’Euro quotava attorno a 1,50 dollari ma le analisi più raffinate concordavano nel prevederne un ulteriore ascesa. C’era perfino chi riteneva inevitabile arrivare al livello di due dollari per euro. A causa della diversità delle situazioni tra paese e paese e , soprattutto, a causa della debolezza dei poteri di intervento delle istituzioni europee, l’Euro ha invece perduto il 10% del suo valore nei confronti del dollaro.
E la situazione è così incerta e confusa che, personalmente mi rifiuto di fare qualsiasi previsione sul futuro dei cambi, proprio perché manca ogni linea comune sulle grandi decisioni riguardo alla politica economica mondiale.
In tale confusione l’unico punto fermo è che certamente non piango per l’indebolimento dell’Euro perché questo indebolimento costituisce oggi lo stimolo maggiore per le nostre esportazioni. Il che, per un paese come l’Italia, è l’aiuto più concreto ad una ripresa che ancora non si è seriamente materializzata.
Ritornando un attimo all’Europa, è doveroso notare come paesi come La Gran Bretagna e la Spagna, che si presentavano come virtuosi e si permettevano di guardare dall’alto in basso l’Italia, presentano ora un bilancio pubblico con deficit fino a pochi anni fa inimmaginabili.
Questi alti e bassi dovrebbero spingere a un maggiore equilibrio di giudizio ma, soprattutto, a collaborare maggiormente nella direzione di una più forte costruzione europea. Il quadro politico va tuttavia nella direzione opposta e gli attuali leader europei sono più spinti a seguire le paure dei propri cittadini che non a spiegare loro cosa ci aspetta nel futuro. E per vedere questo futuro materializzarsi ci dobbiamo perciò spostare ulteriormente verso est, dove la nuova Asia non solo ha già superato la crisi ma accumula le risorse materiali e umane per assumere un ruolo trainante nel futuro.
Ci tocca perciò concludere che l’unica cosa certa è che, quando usciremo da questa crisi, il mondo non sarà più lo stesso.