Per rilanciare la produzione, non difendere quel che non esiste più ma puntare sulle ”multinazionali tascabili”
Tra passato e futuro. Il patto di sindacato ha fatto male alle Imprese
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 7 giugno 2013
Pochi decenni fa l’Italia aveva un numero di grandi imprese tutto sommato proporzionato alla dimensione del suo sistema industriale. Erano nomi gloriosi che, in alcuni importanti settori, mettevano il nostro paese all’avanguardia del mondo. Il riferimento più ovvio ci porta indietro agli anni ’60 quando il premio Nobel Natta portò la Montecatini a primeggiare nell’industria della plastica ma è bene ricordare il ruolo di avanguardia giocato dall’Olivetti nei primi computer, della Cselt nelle comunicazioni, della Carlo Erba e della Farmitalia nel farmaceutico e, con una certa nostalgia, l’allora crescente forza della Fiat nel mercato mondiale dell’automobile. E l’elenco potrebbe anche continuare.
Di tutto questo non è rimasto quasi nulla perché, anche se alcune di queste imprese esistono ancora, esse sembrano giocare un ruolo sempre più marginale nella nuova concorrenza globale.Tutti noi ci chiediamo con ansia persino quale sarà il futuro della Fiat che, nello scorso anno, ha prodotto in Italia poco più di quattrocentomila vetture, riducendo la produzione italiana a una frazione di quanto esce dagli stabilimenti britannici o spagnoli mentre, solo vent’anni fa erano essi a produrre una frazione di quante auto uscivano dalle nostre linee di montaggio.
Certo deve essere oggetto di soddisfazione il fatto che, pur nella crisi più drammatica del dopoguerra, siamo ancora il secondo paese industriale d’Europa. Tutto ciò è solo dovuto al fatto che le nostre piccole e medie imprese giocano ancora un ruolo determinante nella nostra economia.
Innumerevoli sono le spiegazioni dell’inesorabile e anomala caduta del sistema delle grandi imprese italiane, dalle tensioni nel mondo del lavoro alla debolezza delle scuole tecniche, dalla scarsità delle risorse dedicate alla ricerca alla frammentarietà delle politiche pubbliche, fino a bizzarre teorie su una presunta incapacità degli italiani a gestire organizzazioni complesse.
Queste spiegazioni sono ragionevoli ma non sono certo sufficienti: le ben note difficoltà italiche ostacolano con simile intensità anche la vita delle imprese minori.
Oggi, dopo lunghi decenni nei quali era quasi proibito parlarne, si è finalmente messo sotto processo uno strumento che, oltre ogni altro, ha soffocato la vita delle nostre grandi aziende, cioè il così detto patto di sindacato. Un patto per cui, attraverso partecipazioni incrociate, scatole cinesi e accordi più o meno palesi, la proprietà delle imprese era mantenuta sotto il controllo di un ristretto numero di azionisti che si proteggevano reciprocamente contro le dinamiche del mercato. Il risultato è stato il prevalere di un sistema industriale nel quale, anche attraverso il possesso dei media, i grandi azionisti hanno per decenni dedicato tutte le energie a garantire il loro ruolo di proprietari attraverso le partecipazioni incrociate e il ferreo controllo degli amministratori, indipendentemente dall’interesse dell’impresa e dagli elementari principi che debbono impedire i conflitti di interesse. Da parte del più intelligente paladino di questo “capitalismo a suffragio ristretto” si è addirittura arrivato a coniare, con un’approvazione quasi corale, che “le azioni si pesano e non si contano“, in contraddizione con ogni regola elementare del capitalismo. Ed è il prevalere di questo principio che ha impedito che il grande processo di privatizzazione realizzato negli scorsi decenni si sia tradotto in un allargamento e in un arricchimento dei protagonisti della vita economica italiana. Credo proprio che queste logiche perverse abbiano dato un contributo rilevante alla preparazione dei disastri attuali e penso quindi che il recente cambiamento di strategia in primo luogo da parte di Mediobanca e degli altri partecipanti del “salotto buono” debba essere ritenuto una delle poche novità realmente positive del nostro sistema produttivo. Il fatto che in quattro anni i patti di sindacato siano passati da 59 a 43 e che Mediobanca abbia dichiarato che nel futuro farà soltanto la banca e non il puntello di poteri che non esistono più deve essere visto solo con favore. Peccato solo che tutto ciò avvenga tardivamente, quando il nostro sistema delle grandi imprese è ormai definitivamente compromesso.
In compenso abbiamo un bel numero di nuovi protagonisti piccoli e medi (le famose multinazionali tascabili) che stanno affrontando i mercati internazionali con le regole dei mercati stessi. La nuova politica industriale si deve dedicare ad aiutare il loro sviluppo non con protezioni inutili e fasulle ma con le buone istituzioni, la buona finanza e gli incentivi alla ricerca e alla crescita che tutti i paesi moderni adottano nei confronti delle proprie imprese. Noi possiamo contare solo su questi nuovi protagonisti. Essi non sono pochi. Ne possiamo contare alcune centinaia. Non sono giganti ma sono corridori agili e veloci. L’unico modo per fare crescere il nostro sistema produttivo è quello di puntare le nostre migliori energie su queste “multinazionali tascabili”.
Mi auguro quindi che la drammatica crisi in cui ci troviamo ci insegni almeno ad evitare gli errori del passato e a dedicare tutte le nostre risorse non a difendere ciò che non esiste più ma a costruire un futuro che è ancora possibile.