Questi errori porteranno al potere populisti e antieuropei rovinando quanto di buono è stato fatto in 60 anni
Plaidoyer pour l’Europe
Il fut deux fois président du Conseil italien et président de la Commission européenne. Pour “Le Point“, il tire la sonnette d’alarme.
Articolo di Romano Prodi su Le Point del 25 dicembre 2014
Il 2014 si chiude con una situazione grave per l’economia europea. Le cose non andranno meglio nel 2015. Quell’Europa che Papa Francesco ha definito con l’appellativo affettuoso di ”nonna” deve tornare ad essere ”madre” di una nuova e più generosa visione politica che restituisca speranza.
Non usciremo da questa stagnazione se non saranno al più presto messe in atto politiche espansive e non verrà alla luce un programma straordinario di investimenti che ridia fiducia al mercato e agli investitori.
L’Europa che avevamo sognato, la casa solidale e coesa dei popoli, deve riconquistare quel ruolo da protagonista che le spetta e tornare ad essere competitiva con gli altri grandi Paesi, Cina e Stati Uniti. La leadership europea oggi è tedesca e con essa la Germania, per le sue virtù, è arbitro in Europa. Una leadership ormai non solo economica ma anche politica, che non può che essere associata alla responsabilità connessa al suo ruolo di primo piano in Europa.
E’ vero che, per motivi profondi e comprensibili, è impossibile parlare oggi in Germania di leadership, ma essa esiste e non è messa in dubbio ormai da nessuno. E’ frutto della forza della Germania e della debolezza degli altri Paesi. Alle difficoltà economiche di Italia e Francia, si sono aggiunti gli errori politici della Gran Bretagna.
Con questa debolezza e con l’ipotesi di un referendum sulla permanenza nella UE da parte della Gran Bretagna, si sono create le condizioni per cui molti Paesi europei che portavano avanti una politica di equilibrio fra le diverse Nazioni, si appoggiano ormai esclusivamente alla Germania. Ed è una leadership riconosciuta anche all’esterno della UE: Obama telefona sempre più spesso alla cancelliera tedesca che non al Primo Ministro britannico.
La leadership (sia essa riconosciuta o non riconosciuta) porta con sé la responsabilità di rendersi conto degli interessi comuni. Non per nulla, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno accompagnato il raggiungimento del loro primato con il piano Marshall.
La Germania non potrà continuare a giocare una partita che non tenga conto della necessità di uscire da logiche restrittive mentre siamo in piena recessione. Dopo le infinite insistenze perché adottasse una politica espansiva, ha messo in atto un piano straordinario di investimenti pubblici di 10 miliardi di Euro in tre anni. Per un Paese della sua dimensione, con un attivo nella bilancia commerciale di 280 miliardi, una crescita trascurabile e un’inflazione uguale a zero, questo programma di investimenti è così modesto da non potere nemmeno essere preso in considerazione.
Allo stesso tempo il presidente della Commissione Juncker si è impegnato a immettere nell’economia europea 315 miliardi in tre anni: poco più di 100 miliardi all’anno che, suddivisi per 500 milioni di abitanti europei, sono una quantità trascurabile se confrontati con quanto hanno fatto Stati Uniti e Cina per superare con successo la crisi.
Anche se impiegata con rapidità, questa modesta somma potrà fare crescere il PIL europeo fino ad un massimo dello 0,25% all’anno, cioè quasi nulla. Inoltre la Commissione europea non ha messo da parte i 315 miliardi destinati agli investimenti, si è limitata a riservare a questo scopo solo 21 miliardi dei quali 16 attinti dal bilancio dell’Unione e 5 dalla Banca Europea degli Investimenti. Quello che manca per arrivare a 315 dovrebbe giungere da risorse private attivate dal modesto esborso iniziale.
Un effetto miracoloso e incerto di promozione di investimenti che potrebbe essere avvicinato (anche se non raggiunto) solo in presenza di uno slancio dell’economia europea di cui però non si vede traccia. Questo progetto va nella direzione giusta ma la probabilità che possa dare un contributo alla crescita è minima, anche perché esso non potrà entrare in azione prima della metà del 2015 e gli eventuali riscontri positivi eserciterebbero i loro effetti nel lungo periodo di tre anni, cioè troppo tardi. L’Europa non può permettersi di arrivare tardi mentre il resto del mondo incalza e cresce.
Questo mancato coraggio dinnanzi alla crisi è la ragione dell’insorgere dei nazionalismi: i popoli dinnanzi alla immobilità europea legittimamente si chiedono se non sia possibile trovare altrove risposte politiche più vicine ai loro bisogni. Non è l’Europa la causa, ma la mancanza dell’Europa e direi anche il ”tradimento” di questa Europa, così distante da ciò che avevamo sperato, ad alimentare l’idea che liberi dai vincoli europei si possa far fronte meglio alle difficoltà.
Ci si pone spesso la domanda se sia possibile, oltre il necessario condizionamento della politica interna tedesca, una politica europea alternativa. Una politica attenta alla crescita e non solo all’equilibrio dei bilanci pubblici.
Ho per molto tempo pensato che questo sarebbe stato possibile e salutare attraverso un accordo fra Francia, Germania e Italia dati gli identici interessi di tutti e tre i Paesi. Un accordo di questo tipo avrebbe lentamente attratto l’adesione di molti altri Paesi dell’Unione.
Mi sono tuttavia reso progressivamente conto che questa intesa era difficilmente realizzabile poiché ciascuno dei tre Paesi riteneva, in fondo, di essere in condizioni migliori rispetto agli altri, per cui in Europa è rimasta un’unica alternativa di politica economica. E l’alternativa è solo tra prendere o lasciare.
Voglio sottolineare che sono io il primo a ritenere che le regole (siano esse stupide o intelligenti) una volta accettate debbono essere rispettate. E personalmente ho sempre ritenuto ragionevoli gli ammonimenti del cancelliere tedesco Kohl che, quando ero Primo Ministro, mi ricordava il dovere di fare i compiti a casa. E io li ho fatti, portando il rapporto debito\PIL dell’Italia da quasi il 120% a meno del 100%.
Debbo tuttavia riconoscere che mi era allora permesso avere almeno una penna e un foglio per poter fare i miei compiti. Ora nemmeno questo viene concesso e si vorrebbe che questo rapporto migliorasse in presenza di un segno negativo del PIL, cosa possibile solo uccidendo l’economia del mio Paese. Tuttavia nemmeno la Germania che certo è il Paese europeo più competitivo potrebbe, da sola, competere con la Cina o con gli Stati Uniti.
L’Europa resta, quindi, il nostro solo orizzonte, la nostra sola speranza. La pace stessa, che oggi diamo come un fatto acquisito, vorrei quasi dire scontato, rappresenta invece il punto più alto di quanto, uniti e solidali tra loro, i popoli europei hanno saputo esprimere.
Viviamo, da oltre sessant’anni, in pace. I nostri giovani non sono stati chiamati alla leva, ma viaggiano in un’Europa libera, impegnati negli scambi tra le Università, pronti a quella contaminazione culturale che aggrega e amplia i confini non solo del proprio Paese, ma della propria intelligenza e accresce l’individuale capacità di espressione. E in nome della crisi non possiamo sacrificare il senso forse più profondo della tradizione culturale e politica europea, il sistema di welfare che rappresenta una risposta all’ideologia globalizzante che mette a rischio le basi stesse della democrazia e della solidarietà.
Credo che siamo ancora in tempo per correggere la rotta sbagliata, ma occorrono misure di grande impatto e il tempo è poco. Siamo infatti ormai arrivati al punto che gli errori politici porteranno presto al potere i partiti populisti e antieuropei in un crescente numero di Paesi rovinando quanto di buono è stato fatto in sessanta anni di Europa.