Rispondere alla concorrenza USA con una comune politica industriale europea

Concorrenza Usa – Il percorso che l’Europa non può più ignorare

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 11 dicembre 2022

Negli scorsi anni abbiamo progressivamente preso atto che il Covid e le crescenti tensioni politiche stavano cambiando il modello di concorrenza che aveva guidato il commercio mondiale per un’intera generazione. In effetti, anche se la globalizzazione non si è interrotta, come alcuni frettolosi analisti prevedevano, essa ha subito un forte rallentamento.

Le tre grandi aree economiche mondiali (Stati Uniti, Europa e Cina) hanno cominciato a orientare la propria politica portando una parte crescente della produzione all’interno dei propri confini, con una particolare attenzione ai settori tecnologicamente raffinati e, ancora di più, ai prodotti che toccano il settore della difesa o che sono necessari per la sopravvivenza, come quelli del settore alimentare.

Questo processo di progressivo rimpatrio (battezzato con il nome di reshoring) è iniziato in modo abbastanza modesto e, soprattutto, è stato quasi interamente affidato alle forze di mercato.

Al Covid e alle tensioni politiche si è aggiunta poi la guerra di Ucraina, preceduta e accompagnata dal rincaro senza precedenti del prezzo dell’energia.

Questo terremoto sta producendo ulteriori grandi cambiamenti nella politica industriale dei diversi paesi. La Cina ha fortemente indirizzato la propria politica commerciale verso i paesi in via di sviluppo, in modo da rendersi progressivamente meno dipendente dal mercato europeo e americano, mentre gli Stati Uniti hanno adottato una politica di sussidi selettivi, diretti soprattutto a rafforzare la presenza americana nei settori più influenzati dal prezzo dell’energia e dalle nuove politiche ambientali, come le industrie dei semiconduttori, delle auto elettriche e delle batterie.

Lo strumento legislativo adottato dal governo americano si presenta con la denominazione neutrale di un intervento per proteggere i cittadini dalle conseguenze dell’inflazione (si chiama infatti IRA, Inflation Reduction Act) ma, in pratica, è uno strumento protezionista. Esso destina infatti la cospicua somma di 396 miliardi di dollari a sostegno della produzione americana. L’esempio più chiaro di questa politica è che l’incentivo di 7500 dollari per l’acquisto di un’auto elettrica riguarda solo le vetture prodotte negli Stati Uniti, con componenti prevalentemente americane.

A questa politica attivamente protezionista si accompagna, per effetto delle decisioni russe, una differenza nel costo dell’energia fra Stati Uniti ed Europa che non ha né paragoni né precedenti. Basti pensare al gas, la cui quotazione è in Europa oltre quattro volte il prezzo del mercato americano.

Se consideriamo che in molti settori, cominciando dalla chimica di base per finire con la ceramica, l’incidenza dell’energia sul conto economico è più del doppio del costo della mano d’opera, è chiaro che questa situazione non è per noi sostenibile a lungo.

Le imprese europee hanno in questi mesi reagito con forti processi di razionalizzazione, arrivando fino a ridurre del 20% il consumo di gas a parità di produzione. La differenza di costo rimane tuttavia tale che i responsabili della grande industria chimica tedesca non solo hanno dichiarato che tutti i nuovi investimenti dovranno essere dirottati verso gli Stati Uniti ma che, se non vi saranno mutamenti, molti degli attuali impianti europei di chimica di base dovranno essere smantellati.

A questo si deve aggiungere (problema particolarmente rilevante per la Germania) il crollo degli acquisti russi e le crescenti difficoltà di penetrazione nel mercato cinese.

Le proteste sollevate a Washington da Francia e Germania non hanno avuto alcun esito e non sembra esservi alcuna prospettiva di un cambiamento dell’IRA. In Europa ci troviamo quindi in una situazione molto complicata, per non dire drammatica: da un lato abbiamo norme severe che limitano fortemente gli aiuti di stato alle imprese e, dall’altro, non disponiamo di una politica industriale comune.

E’ chiaro che bisogna porre rimedio alle distorsioni che si sono create perché, continuando in questa direzione, l’Europa entrerà in un processo di deindustrializzazione. Il che non può avvenire senza provocare una necessaria reazione.

Se non ci si adeguerà alla nuova situazione, comincerà quindi una politica di crescenti sussidi da parte dei singoli governi europei a cui si accompagnerà, di fatto o di diritto, il superamento delle norme che proibiscono gli aiuti di stato alle imprese. Una situazione in cui il governo che ha il portafoglio più profondo potrà agire con maggiore efficacia.

All’interno dell’Unione Europea non avremo solo una concorrenza fra le imprese, ma anche fra i paesi, con distorsioni del mercato e spreco di risorse pubbliche. Senza contare che alcuni di questi paesi (tra cui il nostro) di risorse disponibili ne hanno ben poche.

Ne consegue la necessità di un ripensamento da una sponda e dall’altra dell’Atlantico. Da parte europea si deve procedere ad un’accelerazione nell’adozione delle nuove energie, ad una più rapida trasformazione delle strutture produttive e a una politica industriale comune per tutti i paesi, in modo da superare regole che erano state decise in un contesto diverso.

Da parte americana deve prevalere la consapevolezza che ogni alleanza politica deve essere accompagnata dall’armonizzazione degli interessi economici. Oggi questa consapevolezza, così forte nel non lontano passato, sembra farsi sempre più debole. In ogni caso al disegno di un’ “America first”, non può certo corrispondere un’ “Europe last”.

 

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