Salviamo il Lago Tchad per fermare il terrorismo e avviare lo sviluppo africano
Salviamo il lago contro Boko Haram
Articolo di Vincenzo Giardina su L’Espresso del 27 maggio 2014
Il gruppo è arrivato al bacino del Tchad e cerca consenso tra i milioni di persone che soffrono per mancanza d’acqua.
Alle ragazze di Chibok rapite da Boko Haram devono averlo descritto i nonni, che lo chiamavano “mare interno”. Ma sono tempi lontani. Cinquant’anni che sembrano un’eternità. “Quando a scuola disegnavo la carta geografica del mio paese non dimenticavo mai di fare una macchia azzurra in alto a destra, lungo la linea del confine” dice Sarah Ochekpe, che ora è ministro della Nigeria per le Risorse idriche. E ricorda: “Era una festa quando mio zio, che viveva lì, veniva a trovarci portando cesti pieni di pesce essiccato”. La macchia azzurra sul quaderno si è sbiadita. Quasi non si vede più. E anche i caracidi africani, i coccodrilli e gli ippopotami cominciano ad aver sete. Perché le dune di sabbia del Sahel avanzano. E il Lago Tchad, fonte di sostentamento per oltre 30 milioni di persone, muore. Colpa dei mutamenti climatici, delle siccità divenute più frequenti e di uno sfruttamento delle risorse intensivo e irrazionale. Addirittura disperato da parte di contadini e pescatori che dipendono in tutto e per tutto da questo occhio azzurro circondato dal deserto. In Nigeria, ma anche in Camerun, Niger e Tchad. Paesi tra i più poveri al mondo, parte di un bacino idrografico che copre l’8% dell’intera superficie dell’Africa, raggiungendo Algeria, Libia, Repubblica Centrafricana e Sudan. Quattordici milioni di chilometri quadrati dove vivono 375 milioni di persone. Colpite in modo più o meno grave da un disastro ecologico e sociale paragonabile forse solo a quello del Lago Aral, svuotato ai tempi dell’Unione Sovietica dai canali che dovevano portare acqua alle piantagioni di cotone. All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso la superficie del Lago Tchad raggiungeva i 25.000 chilometri quadrati. Oggi, sei anni dopo l’ultima grande siccità, sotto la pressione di una crescita demografica che non dà tregua, arriva a stento ai 2500. Ormai il Lago è tagliato in due dalle lingue di sabbia. E il bacino settentrionale che guarda il Niger è quasi prosciugato. I pastori portano altrove le mandrie di mucche dalle corna arcuate. Chi resta rischia la fame e la vita.
Ma qualcosa potrebbe cambiare. Il disastro ha costretto a una presa di coscienza le comunità e i governi della regione, che hanno cominciato a confrontarsi immaginando sforzi e soluzioni condivise. Lo strumento è la Commissione per il bacino del Lago Tchad. Un organismo al quale oltre ai quattro paesi rivieraschi aderiscono Libia e Repubblica Centrafricana e, in qualità di osservatori, Egitto, Sudan, Repubblica del Congo e Repubblica Democratica del Congo. Nel 2012, a N’Djamena, la capitale del Tchad, è stato approvato un piano quinquennale di “rivitalizzazione”. Che da una parte mira a sostenere pesca, agricoltura e zootecnia, senza compromettere i già fragili equilibri dell’ecosistema lacustre; dall’altra a “migliorare la quantità e la qualità” delle acque, sia monitorando i livelli dei due principali fiumi immissari sia attraverso opere di canalizzazione frutto di una nuova cooperazione tra gli Stati. Il piano è stato al centro di una conferenza di donatori che si è tenuta a Bologna e a Rimini ad aprile. A organizzarla, attraverso la sua Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli, è stato Romano Prodi. Ormai ex inviato speciale del segretario generale dell’Onu per il Sahel, ma sempre amico dell’Africa e deciso a favorire un impegno comune. “Le iniziative per rivitalizzare il Lago Tchad – dice il Professore – sono una manifestazione forte, importante e irreversibile del ‘rinascimento africano’ del quale si parla da alcuni anni, nel senso di una maggiore capacità dei paesi del continente a far fronte alle innumerevoli sfide cui sono sottoposti”. A Rimini, nelle sale di marmo del Grand Hotel caro a Federico Fellini, sono arrivate 60 delegazioni dall’Africa, dall’Europa e dal resto del mondo. Capi di Stato, ministri e rappresentanti di istituzioni multilaterali hanno fatto il punto su ciò che si può e si deve fare. L’obiettivo è raccogliere 925 milioni di euro, il costo stimato degli interventi previsti nel quinquennio 2013-2017. Impegni sono stati assunti dalla Banca africana di sviluppo, che mette sul piatto 80 milioni, dalle agenzie dell’Onu e dalla Banca mondiale, pronta a devolvere per il Lago Tchad parte del miliardo e mezzo di dollari di investimenti previsti dalla sua “strategia integrata” per il Sahel. Poi ci sono i governi di Sudan, India, Francia e Germania. Ai quali si aggiunge il “sostegno politico” dell’Italia, espresso in apertura di conferenza anche attraverso un messaggio di Giorgio Napolitano. “Ineludibile – sottolinea il Presidente – una rapida e convinta azione di tutela da parte della comunità internazionale”.7
Impegno doveroso ma difficile. Perché i paesi della regione potranno contribuire solo per il 10% degli stanziamenti necessari. E perché, sottolinea Prodi, bisognerà “armonizzare e coordinare tutti gli interventi annunciati in favore dei diversi settori economico-sociali”. Al termine della conferenza il Professore è stato nominato a capo di un comitato con il compito di monitorare l’attuazione del piano per il Lago Tchad. Un incarico fondamentale anche alla luce del legame strettissimo che esiste tra povertà, insicurezza e spinte migratorie. “Dove le popolazioni sono costrette alla miseria e a sfruttare le risorse naturali in modo sproporzionato – sottolinea Prodi – il terrorismo trova campo di azione più facile per reclutare giovani ed espandersi”. Sulle rive del Lago Tchad sono arrivati gli islamisti di Boko Haram. Una delle battaglie più cruente con l’esercito nigeriano è stata combattuta a Baga, un villaggio di pescatori. È accaduto un anno fa. Le vittime sono state più di 200, nella grande maggioranza civili. Le case sono state incendiate e i cadaveri ammassati sui pick-up. Il rapimento delle ragazze di Chibok e quello di due sacerdoti italiani e una suora canadese nel nord del Camerun, a poche decine di chilometri dal Lago, sono state le ennesime conferme di un disfacimento del tessuto sociale e civile. Secondo l’ex capo di Stato nigeriano Olusegun Obasanjo, a Rimini come presidente della conferenza dei donatori, “con il ritirarsi delle acque la lotta per le risorse naturali diventa sempre più aspra, i contadini entrano in conflitto con i pescatori e i pescatori con i contadini”.
La speranza è che l’impegno per salvare il Lago possa funzionare da antidoto. “Lavorare insieme ed esprimere una volontà comune è il primo passo ma anche un passo importante” dice Adoum Moustapha Brahimi, un deputato ciadiano nato e cresciuto dove il Lago non c’è più. È convinto che la sua città, Bol, tornerà a vivere “solo se gli africani saranno uniti e la comunità internazionale solidale”. La Commissione per il bacino del Lago Tchad vede nel piano quinquennale l’inizio di un percorso. Tra gli interventi previsti c’è la costruzione di un canale lungo oltre cento chilometri per trasferire parte delle acque del fiume Ubangi, un affluente del Congo che attraversa la Repubblica Centrafricana. E non è stata dimenticata l’idea di una grandiosa infrastruttura, nata oltre 30 anni fa proprio nell’Iri di Prodi. Transaqua, questo il nome del progetto, prefigurava canali in grado di riversare nel Lago Tchad 3000 metri cubici di acqua al secondo, tra il 6 e l’8% della portata del Congo. Ma adesso bisogna passare dagli studi agli interventi concreti. In tempi rapidi. Anche coinvolgendo Bruxelles e la Banca europea per gli investimenti, un istituto che dispone delle risorse e delle capacità indispensabili per aiutare i popoli sub-sahariani. Nkosazana Dlamini-Zuma, la presidente della Commissione dell’Unione Africana, dice che “il Lago Tchad è un patrimonio comune” e che “tutti devono essere chiamati a partecipare”. Perché anche lo sviluppo è fondamentale per fermare le sanguinarie armate di Boko Haram.