Sconfiggere Ebola con una battaglia politica, economica e diplomatica
”L’UE doveva aprirsi anche verso Sud. Ora subisce le crisi”
Intervista di Alberto Simoni a Romano Prodi su La Stampa del 29 novembre 2014
L’errore è stato quello di agire senza prevedere le conseguenze; come se la storia recente non avesse insegnato a guardare oltre la contingenza e il momento: “Prendete Iraq, Siria, Afghanistan, non mi pare che le guerre abbiano portato a situazioni migliori rispetto allo scenario pre bellico”.
Romano Prodi guarda la Libia e non si stupisce che il Paese che fu di Gheddafi sia caduto in una spirale di conflitto, laici contro islamisti e la bandiera Isis che sventola a Derna.
L’ex Presidente della Commissione Europea che oggi sarà a Torino per celebrare Cuamm (Medici con l’Africa) il progetto “Prima le mamme e i bambini” e “il loro straordinario lavoro”, è stato fino alla scorsa primavera l’inviato ONU per il Sahel: la guerra in Mali, il Nord Africa che si disgrega, il terrorismo islamico sono stati nella sua agenda. Così come l’Africa, stretta fra l’incubo Ebola, e la corsa allo sviluppo.
Sono stati inglesi e francesi a sganciare le prime bombe sulla Libia, tocca ora agli europei porvi rimedio? Questa in fondo è anche la richiesta che viene da Tripoli. Siamo in grado?
“Purtroppo quella guerra è iniziata senza che vi fosse stata una riflessione sulle conseguenze e ora siamo arrivati a questo punto. Dicevo in passato, e lo ripeto ancora oggi: quando si ha una situazione di anarchia bisogna dialogare e trattare con tutti. E’ vero, principio sacrosanto in teoria, che si tratta con i governi o i poteri legittimi, ma in questi casi è necessario parlare con tutti i protagonisti. Ho sempre creduto che ci fosse spazio, per gli europei, per un dialogo con tutti e lo penso ancora oggi. Non si può rimanere attaccati a principi dottrinali, occorre invece un’attenta e severa analisi dei fatti.
Libia, per l’Europa e per l’Italia in particolare, significa immigrazione e carrette del mare stracolme di disperati in fuga. L’Italia c’è in questa sfida, pensiamo a Mare Nostrum, ma l’Europa?
“Dieci anni fa, quando ero presidente della Commissione Europea, mi rimproveravano di non avere una politica verso il Sud. Allora l’urgenza era colmare il vuoto a Est causato dal crollo della cortina di ferro. Ma l’intenzione di tutti era che poi avremmo realizzato politiche per il Sud. Io avevo proposto una banca del Mediterraneo, un’università mista per mettere insieme Nord e Sud. Erano progetti che creavano un rapporto con il Sud, lo integravano, una cosa dal basso. Ma alcuni paesi della UE si opposero. Oggi bisogna destinare risorse alla politica verso il Mediterraneo che dev’essere di ampio respiro e non intaccata da logiche o atteggiamenti legati al passato coloniale”.
Il 2014 per l’Africa occidentale significa anche Ebola. Gli Usa hanno mandato l’esercito, i grandi donatori sono i Paesi europei. E la Cina si è ritagliata un posto di primissimo piano. Cosa cambia per gli equilibri continentali questo attivismo nel nome del realismo di Pechino?
“Anzitutto la Cina ha bisogno dell’Africa, lì cerca le cose che le servono: cibo, energia e materie prime. Inoltre per altri 20 anni la Cina sarà l’unico Paese in grado di esportare uomini, beni, capitali e tecnologia. E questo grazie a una politica organica, un sistema. Pensi che su 54 Stati africani ben 50 hanno relazioni diplomatiche con la Cina. La politica è anche diplomazia, è capacità di creare reti. In questo l’Europa è indietro, ha un gap fortissimo. Non è riuscita a cogliere la dimensione della sfida.
Perché?
“E’ rimasta prigioniera della paura. Certo la UE ha fatto grandi cose, ha dato speranze. Poi quella spinta si è esaurita, ancor prima della crisi economica del 2008 che ha trasformato la paura in panico. Una sorta di crisi d’identità. Ma non è così che si fermano i populismi. Ecco direi che oggi alla UE manca l’Europa, l’idea stessa di quel che vuole essere”
Obama ha parlato di Ebola come di una questione di sicurezza nazionale, coglie un legame anche lei, Professore, fra epidemie e sicurezza?
“Le malattie si vincono con le battaglie politiche, economiche e diplomatiche. Bisogna spendere e investire risorse per trovare vaccini e creare reti di protezione e di prevenzione. Questo significa garantire sicurezza. Sono battaglie che tutti devono combattere…”
Il G8 ha sempre fatto grandi richiami all’Africa, alla lotta alle malattie e alla povertà. Non basta?
“Ho partecipato a dieci G8, abbiamo sempre fatto promesse, ma ne abbiamo mantenute solo una parte”.
Le Ong che ruolo hanno in questa lotta che sembra impari con le epidemie?
“Il volontariato è fondamentale ma, ripeto, le sfide come quelle di Ebola si vincono a livello politico”.
Libia, Mali, Ebola, le guerre tribali e per le risorse, penso al Congo. Eppure l’Africa sta conoscendo anche sviluppo e cambiamento, risveglio economico…
“Non lo chiamerei risveglio…”
Non lo è un Continente che cresce del 5%?
“Certo che cresce, e bene, ma il suo Prodotto Interno lordo ha la stessa quota del prodotto lordo mondiale che aveva nel 1980. Questo ci dice quanto è stata tragica negli ultimi decenni la situazione del Continente che resta ancora in condizioni di povertà drammatiche. Però è vero che c’è un fermento positivo e una gioventù nuova. Non è un rinascimento, ma l’Africa sta crescendo.
E dove guarda quella gioventù, quali modelli di riferimento segue?
“Per la mia esperienza direi che non segue nessun modello. Una volta era l’Europa, ma oggi se in Angola arrivano più portoghesi rispetto a quanti angolani migrano in Portogallo, è evidente che il modello europeo è in crisi anche a quelle latitudini.”