Solo con una politica industriale attiva l’Italia non sarà più il mercato dei saldi
Investimenti esteri – Le alleanze per il rilancio delle aziende made in Italy
Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 12 febbraio 2017
Ho sempre pensato e tuttora penso che gli investimenti incrociati fra i diversi paesi siano un positivo contributo al progresso tecnologico e un aiuto allo sviluppo. Si deve anche in buona parte a qualificati investimenti esteri la rapidità con cui le nostre imprese hanno affrontato il processo di modernizzazione e l’apertura ai mercati che hanno fatto dell’Italia uno dei paesi industrialmente più avanzati del mondo.
Per esercitare i suoi effetti positivi questo processo deve tuttavia avere due caratteristiche. In primo luogo non si deve trattare soltanto di acquisti di imprese al semplice scopo di accaparrarsi una quota del mercato italiano ma anche di mettere in atto nuovi investimenti (i così detti greenfield). Investimenti in grado di fare progredire il nostro sistema produttivo e di assumere e specializzare nuova mano d’opera.
In secondo luogo, in queste fertilizzazioni incrociate, vi deve essere un certo equilibrio. Le presenze estere in Italia debbono cioè essere equilibrate, o almeno accompagnate, da parallele iniziative italiane negli altri paesi. Altrimenti si finisce con l’essere progressivamente colonizzati fino a perdere la nostra identità.
Purtroppo questo è quanto sta avvenendo nel nostro paese. Gli esempi ormai non si contano più e vanno dalle più grandi aziende produttive fino a un interminabile elenco di imprese di piccola e media dimensione.
Anche lasciando da parte il caso della Fiat, ormai saldamente elencata tra le imprese americane, abbiamo visto passare in mano francese alcuni tra i più prestigiosi nomi della moda, noti istituti bancari, la maggior parte della produzione di materiale ferroviario e alcuni tra i maggiori protagonisti del settore dell’energia. I tedeschi, a loro volta, hanno fatto shopping nella meccanica di ogni tipo, nella chimica e nel cemento. L’elenco può proseguire con gli americani, con i giapponesi e con i cinesi ed include oramai tutti i settori, fino a comprendere note squadre di calcio.
In molti casi questo passaggio di mano era inevitabile e, in altri, un’occasione che non poteva essere rifiutata perché molto remunerativa per il venditore.
Quello che più colpisce è che in molte di queste vicende si tratta di aziende, come la Pirelli, che manteneva il primato della fascia di mercato più elevata del proprio settore o imprese che avevano raggiunto una ragguardevole dimensione ed un’equilibrata distribuzione del rischio come l’Italcementi o che erano addirittura giustamente divenute sinonimo di fantasia, di capacità imprenditoriale e di profitti, come la Luxottica.
Anche nel settore bancario gli acquisti sono stati numerosi e, dopo l’aggravamento della crisi, gli operatori stranieri hanno smesso di comprare le nostre banche ma si sono affrettati a fare acquisti a piene mani dei crediti incagliati ( i così detti non performing loans ), crediti che la nostra cattiva fama ha abbassato a infimi livelli di prezzo. Nel frattempo il nostro risparmio ha preso la via dell’estero, incanalato dalle società di gestione del risparmio, anch’esse passate abbondantemente in mani straniere. Di conseguenza la borsa di Milano, a sua volta in mani britanniche, perde le imprese quotate come le foglie d’autunno.
Analizzando tutti i particolari di questo quadro siamo costretti a concludere che gli investitori esteri guardano all’Italia non solo come un obiettivo strategico ma come un mercato di saldi.
Io credo invece che sia ancora possibile, e forse doveroso, porre mano a un processo di rafforzamento delle nostre imprese, partendo dal dato di fatto che, in moltissimi casi, una fusione tra aziende italiane sarebbe ben in grado di creare un’impresa capace di vincere la concorrenza internazionale. Un obiettivo non facile da raggiungere ma oggi nemmeno tentato proprio perché manca una politica industriale in grado di coinvolgere in una strategia coordinata le imprese, le banche, le strutture finanziarie e gli organismi pubblici.
Non si tratta di dirigismo. Si tratta semplicemente di garantire, con un’azione congiunta, il futuro del nostro paese. Non è un compito semplice perché non ci si può limitare agli interventi inutili e tardivi che vengono immaginati quando un ‘impresa è già presa di mira da un operatore straniero. Si tratta di costruire, in collaborazione fra governo, Confindustria, Cassa Depositi e Prestiti, Banche e Fondi di Investimento italiani, gli strumenti che possano favorire le scelte indispensabili per garantire lo sviluppo ottimale del nostro sistema produttivo. Nessun dirigismo, nessuna programmazione forzata ma la costruzione di un establishment che affianchi le nostre imprese e le aiuti ad affrontare il futuro.
La necessità di una politica attiva non riguarda naturalmente solo il settore industriale ma tutta l’organizzazione produttiva perché non è possibile che quello che noi amiamo definire il più bel paese del mondo non abbia più nessuna grande agenzia turistica e nessuna catena alberghiera di dimensioni internazionali e, in aggiunta, perda ogni anno peso nella grande distribuzione specializzata. È chiaro che, per mettere in atto questa strategia, non si può fare tutto in casa con le sole risorse umane oggi disponibili ed è chiaro che occorre fare appello a specialisti di livello internazionale. Posso però assicurare che questi non mancano perché, dietro ad ogni impresa straniera che fa shopping in Italia, i consiglieri più raffinati sono sempre i nostri connazionali.