Io mediatore in Libia? Ipotesi superata. Un intervento provocherà un altro Iraq
Io mediatore in Libia? Un’ipotesi superata. Un intervento militare provocherà un altro Iraq
Intervista di Paolo Valentini a Romano Prodi sul Corriere Della Sera dell’ 8 marzo 2015
Presidente Prodi, partiamo da lontano e proviamo a ricostruire la crisi libica.
“La crisi della Libia l’ho vissuta dall’inizio. Quando ero alla Commissione Europea avevamo capito,dopo analisi molto approfondite, che il colonnello Gheddafi era stanco di fare il trouble maker, di creare tensione nella regione sub-sahariana. Con una battuta, il suo sogno era di farsi re dell’Africa, assumere la leadership di una fragile Unione africana. Lo invitammo allora a Bruxelles e fu un po’ il suo sdoganamento, all’inizio molto criticato nel mondo anglosassone. Salvo, un mese dopo, cominciare la corsa a incontrarlo, perché tutti, dagli americani agli inglesi, avevano qualcosa da vendergli. Da allora la Libia ha assunto un ruolo molto particolare. Gheddafi ha cercato di riparare, pagando, per le vittime dei suoi atti di terrorismo, in tal modo ammettendo le proprie responsabilità. E’ diventato punto di riferimento per i Paesi vicini, ha sostenuto il peso più forte del bilancio dell’Unione africana (quasi un quarto) rimanendo però un dittatore durissimo all’interno, perché solo col pugno di ferro teneva a freno le diverse tribù e il composito mosaico politico del suo Paese. Altra particolarità, aveva un esercito formato in buona parte da uomini del deserto, ben pagati, che contribuivano a mantenere un equilibrio economico nel sub-Sahara. La guerra ha frantumato questi equilibri. Gheddafi è morto, i mercenari privi di paga si sono presi quello che c’era: una montagna di armi. In questo quadro caotico, è caduto l’intervento militare della Nato, privo però di ogni strategia politica, di ogni idea sul dopo, a parte la vaga ipotesi di elezioni. Da allora, ci sono state solo rotture progressive, fino ai due governi contrapposti di Tobruk e Tripoli, con la complicazione dell’Isis nell’ultimo anno, probabilmente non così forte numericamente, ma potentissimo quando si muove in un ambiente pieno di ambiguità. Ora ci sono continui rivolgimenti di fronte, un incessante bagno di sangue. Ma c’è per fortuna la convinzione generale che un intervento esterno sul terreno sia impossibile, per la natura frammentata dello scontro e per il semplice fatto che avrebbe l’effetto di unire tutti contro l’invasore, quindi difficoltà militari e conseguenze politiche”.
In questo scenario, la scorsa estate è partita la mediazione dell’Onu. Perché si è rivelata debole e insufficiente? Cosa avremmo potuto fare di diverso?
“L’handicap della mediazione è stato in primo luogo il ritardo con cui è partita. Personalmente avevo detto da tempo ai vari ministri che si sono succeduti alla Farnesina che avremmo dovuto forzare le parti. Ci si è illusi che il governo legittimo, emerso dalle elezioni e che non voleva nessun altro interlocutore al tavolo, fosse sufficiente. Quando ci si è accorti che non era così, la situazione si era già troppo deteriorata. Non so se la mediazione dell’Onu è stata tardiva per colpa dell’opposizione di alcuni Paesi. Ma tant’è: di fronte a due governi con due eserciti, più le varie milizie armate, più l’Isis, il compito è diventato proibitivo. Paradossalmente, a poter dare una mano è la drammaticità di una situazione in cui tutti si sentono perdenti”.
E l’Europa?
“Non c’è stata. Non ha avuto una politica. Ma non solo rispetto alla Libia. E’ stata divisa, sempre. Sulla specifica vicenda libica hanno probabilmente pesato il ruolo particolare della Francia soprattutto di fronte all’opportuno smarcamento della Germania, che si è chiamata fuori dall’intervento. Le differenze erano evidenti. Devo aggiungere un’altra notazione: per esperienza personale, tutte le volte che era in ballo il Mediterraneo, era difficile attirare l’attenzione dei Paesi del Nord. Hanno sempre bocciato ogni proposta. Quando abbiamo fatto l’allargamento, l’unica vera esportazione di democrazia della Storia, mi sono sentito rimproverare da algerini, marocchini, tunisini, egiziani, libici: voi guardate solo a Nord e non guardate mai a noi. La mia risposta era: c’è un’emergenza storica, è caduta la Cortina di Ferro e noi abbiamo il dovere di una risposta, ma c’è un impegno di volgerla anche a Sud. Bene, quell’impegno non è mai stato onorato. Proposi la Banca del Mediterraneo, con consiglio d’amministrazione paritario tra Nord e Sud, mi dissero che avevamo già la Bei. Così per le Università miste: pensavo a sedi doppie, Catania e Tunisi per esempio, due anni di frequenza in una e due anni nell’altra, professori del Nord e del Sud, materie scientifiche per cominciare, così da non avere problemi teologici. Nulla. Oggi ne paghiamo il prezzo”.
Arriviamo a Rabat, storia di queste ore. Per la prima volta le fazioni stanno fisicamente nello stesso edificio, non si parlano ancora direttamente ma comunicano. Quali saranno i passi successivi?
“Spero che la forza della disperazione faccia il miracolo: se sono andati tutti a Rabat è perché sono disperati. L’Isis è diventato un tragico fattore unificante nella politica mondiale. E’ la prima volta che tutte le grandi potenze hanno la stessa paura, anche se non la stessa politica. Cina, Russia, Europa, Stati Uniti. Mi auguro che a Rabat i grandi Paesi, quelli che hanno influenza, siano finalmente d’accordo nell’utilizzare ognuno le proprie leve e i propri canali. Certo molto dipende anche da Egitto e Algeria. E resta il punto interrogativo sulle politiche di Paesi come Qatar, Turchia, quelle che io chiamo “politiche individualmente anomale”. Ma se le grandi potenze agiscono in modo deciso e unito, le anomalie si possono ridurre e forse le tre stanze di Rabat potranno diventare una”.
Quale mano può dare specificamente la Russia in Libia?
“Io sono convinto che proprio la paura dell’Isis possa fare la differenza. La Russia in Africa non svolge oggi un vero ruolo. Ma se mettiamo tutto sul tavolo, dall’Ucraina alla Libia, alla Siria, allora il ruolo della Russia può essere decisivo. In fondo ci manca il grande mediatore, che avevamo sperato fosse Obama. Specificamente, Mosca in Libia può solo aggregarsi agli altri. Ma se abbiamo bisogno di un compromesso globale, la Russia con la sua forza, può essere cruciale per creare condizioni generali in grado di produrre soluzioni positive anche in Libia. Vede di solito le grandi potenze hanno interessi divergenti e si cercano mediazioni difficili. Questa volta gli interessi sono convergenti”.
L’ipotesi del suo ruolo come eventuale mediatore è ancora attuale? Se ne parla già dal 2011.
“Mi fece molto piacere, nel 2011, la lettera di 25 capi di Stato e di governo africani, che indicavano il mio nome per la Libia e la pronta e positiva risposta di Ban Ki Moon, il quale promise di consultare i Paesi rilevanti. Il fatto che poi non se ne fece nulla significa che qualcuno di questi Paesi diede parere contrario. Mi è dispiaciuto, ma non mi ha sorpreso. Ricordo che Berlusconi era il premier italiano e Sarkozy il presidente francese. Poi, nell’estate del 2014 ci sono state nuove richieste libiche, queste dirette al governo italiano, per una mia mediazione. Ma anche in questo caso non c’è stato alcun riscontro. Ho incontrato il presidente Renzi a Palazzo Chigi lo scorso 15 dicembre, ma non si è fatto cenno a un mio personale ruolo nella vicenda libica. Solo una mia insistenza sulla necessità di far sedere tutti attorno allo stesso tavolo. L’unico discorso personale ha riguardato l’ipotesi avanzata da Renzi di una mia candidatura a segretario generale dell’Onu. Io l’ho ringraziato per l’onore, ma gli ho spiegato che a 77 anni, quanti ne avrò alla scadenza di Ban Ki Moon, non è facile ricoprire quella carica. Inoltre, c’è un forte supporto politico di cui godono altri candidati”.
Si riferisce alla cancelliera Merkel? La voce corre molto in Germania.
“l’ho raccolta anche io negli stessi termini. Tornando alla sua domanda sulla mia mediazione, volevo concludere che mi sembra un’ipotesi superata dai fatti”.
Ma in Libia sarà comunque necessaria una presenza militare di garanzia?
“Visto che lei usa il termine garanzia, cioè una presenza accettata da tutti, dico ovviamente di si. Come in Libano. Lo feci io, in due giorni. Ed è andata benissimo. Sono invece contrario all’azione militare, ma non perché sia pacifista. So benissimo che in certi momenti bisogna esser pronti anche a menare le mani. Ma in questo caso un’azione militare non avrebbe alcun senso. Rischieremmo un Iraq 2”.
Cambiamo argomento e parliamo dell’Ucraina. E’ ottimista che i nuovi accordi di Minsk possano essere rispettati?
“Mi sembra stia andando meglio del primo Minsk. Penso che siamo arrivati a un punto nel quale nessuno ha interesse a rompere il filo della diplomazia”.
Lei si è detto rattristato dall’assenza dell’unione europea a Minsk.
“Molto”.
Di chi è la responsabilità?
“Dell’Europa, dei rapporti di forza esistenti nella Ue”.
Ma se l’Alto Rappresentante della poltica estera si fosse chiamato Tony Blair, Joschka Fischer oppure Romano Prodi, sarebbe stato escluso dal vertice di Minsk?
“Domanda di difficile risposta. E’ chiaro che qualcuno con forza politica e rapporto personale consolidato con chi sedeva a Minsk poteva avere più possibilità di sedere almeno su uno strapuntino. E’ ben noto che la politica si nutre di rapporti personali. Federica Mogherini ha certamente tempo e possibilità di costruirli”.
Torniamo all’Ucraina, lei ha fatto alcune proposte interessanti sulla gestione comune del trasporto e della distribuzione del gas.
“Ne ho parlato con Putin, Gentiloni, Mogherini e col ministro degli Esteri tedesco. Quando esistono tensioni così gravi, occorre individuare interessi comuni che le diminuiscano. Qual è l’interesse comune a Russia, Europa e Ucraina? La sicurezza delle forniture di gas. Ora che Mosca, per ovvie ragioni di convenienza, ha rinunciato al South Stream, ho proposto di fare una società, tre quote paritarie, tra Russia, Ue e Kiev. Servirà a gestire in comune trasporto e distribuzione del gas senza spendere nulla. Se Mosca e l’Europa sono d’accordo, l’Ucraina è obbligata a starci”.
Sembra la Ceca nel Dopoguerra, che mise fine alla rivalità tra Francia e Germania. Il gas come il carbone e l’acciaio?
“Esattamente. I tubi sono lì. Ognuno consegue i propri obiettivi. Mi sembra che le prime reazioni siano positive”.
Lei ha definito le sanzioni un “suicidio collettivo” dell’Europa. Ma c’era una strada diversa dalle sanzioni dopo l’annessione della Crimea?
“La Crimea è stato una decisione difficilmente digeribile, ma va inserita nella storia. Dopo è stato tutto molto più difficile. La strada della pacificazione dipende dalla assoluta garanzia che la Russia rispetti l’integrità territoriale e la sovranità dell’Ucraina. Io penso che la soluzione sia quella altoatesina, una forte autonomia e decentramento per le regioni russofone. Per questo è così importante che la tregua sia duratura e le armi cessino di sparare. Ricordo che le divisioni interne al governo dell’Ucraina sono un altro fattore di complicazione. E’ il momento di un guizzo di intelligenza per le grandi potenze”.
Trova opportuna la visita di Renzi a Mosca?
“Certo. Quando qualcuno rimprovera all’Italia una posizione eccessivamente morbida sulle sanzioni alla Russia, occorre tener presente che ci vuole una regola generale sull’equa distribuzione dei sacrifici. Non è quanto sta succedendo. Le esportazioni americane verso la Russia sono aumentate. Certo, partono da parametri diversi, ma il danno subito dall’economia USA è pari a zero. Se un Paese agisce diversamente in base alla propria situazione oggettiva, non è che possiamo chiamarla viltà”.
L’Ucraina pone il tema dei rapporti con Mosca. Lei ha più volte detto che dopo la fine della guerra fredda la Russia e l’Europa hanno sprecato la grande opportunità di costruire un ordineglobale cooperativo. Di chi sono le responsabilità?
“La questione è controversa. Era stato promesso, in modo ufficiale o ufficioso, che non si sarebbe portata la Nato ai confini della Russia. Diversa era stata la decisione riguardo ai Paesi Baltici. Ma nel 2008, ci fu la proposta di far entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Al vertice di Bucarest, insieme con Germania e Francia, io votai contro. Fu l’ultimo atto del mio governo. Era una questione di buon senso. Ma da quel momento, la Nato è ridiventata un’ossessione per i russi. Tutto era cominciato con la guerra in Iraq. Me lo disse Putin, proprio nell’immediata vigilia del conflitto: “Dobbiamo far di tutto per evitare la guerra in Iraq, perché dopo l’Iraq verrà la Georgia e l’Ucraina”. Ma perché lo dici a me, gli chiesi, io sono il presidente della Commissione europea, non ho competenze di politica estera. Proprio per questo, mi rispose, voglio un consiglio. Ma era troppo tardi. Forse sarebbe bastato che lui, Schroeder, Chirac e il presidente cinese facessero una foto insieme e dicessero che non bisognava invadere l’Iraq. Non ho mai capito perché i cinesi non si siano mossi allora. Forse non si fidavano del tutto degli europei. O forse erano ben contenti che alla fine gli Stati Uniti si infilassero nel pantano iracheno. Ma sono solo ipotesi. Ricordo però con chiarezza che Putin era sconvolto. Allora si aprì una ferita che non si è ancora richiusa. Ora però ci sono sufficienti interessi comuni per provare a farlo”.
Ma come trovare l’equilibrio tra la difesa degli interessi e la salvaguardia dei valori nei rapporti con Mosca? Possiamo sorvolare sull’autoritarismo e sulle violazioni del diritto internazionale da parte di Putin?
“Ho sempre pensato che una politica di apertura aiuti la democrazia. Mercato aperto e scambi culturali sono il modo migliore per far avanzare valori democratici e diritti umani. E’ la paura che ci rende insegnanti e non dialoganti. Probabilmente la fragilità dei sistemi democratici giustifica le nostre paure. Ma credo che solo una democrazia dialogante possa contaminare positivamente i sistemi autoritari. Mentre una democrazia che si vuole maestra, con la bacchetta e magari con il fucile e basta, rischia di essere controproducente. D’altra parte dialogare con San Francesco è facile. Il problema è parlare con il lupo”.
Lei crede che nonostante l’ondata di nazionalismo interno che domina la conversazione nazionale in Russia, siamo ancora in grado di recuperare un forte rapporto con Mosca?
“I passi in avanti bisogna farli in due. Anche la Russia deve uscire dal buco, per questo sono ottimista. Mosca è nell’angolo, l’Ucraina è nell’angolo, siamo tutti pieni di problemi. L’economia russa rischia di perdere 5 punti di Pil. Oggi il nazionalismo aiuta Putin, ma il digiuno colpisce nel lungo periodo”.
Ma questo ci costringerebbe a una forzatura nel rapporto con gli Stati Uniti?
“Obama queste cose le capisce”.
Sul nucleare iraniano siamo a una svolta. Crede importante arrivare a un accordo?
“Sono perfettamente d’accordo con Emma Bonino sull’utilità di eliminare questo fattore di tensione. Sono stato spesso a Teheran in questi anni. Ai tempi di Kathami, da presidente del Consiglio, sono stato l’unico leader occidentale a fargli visita. Ho fatto lezioni all’Università. L’Iran è un grande Paese. Per gli americani è un passo difficile e lo capisco. Ma sono stati loro stessi, con le loro politiche, ad aver reso possibile il ritorno e la continuità territoriale della grande area sciita. Far fronte comune contro il terrorismo dell’Isis è una priorità per tutti. Quindi un compromesso con il mondo sciita è indispensabile”.
Considera ancora uno scenario realistico l’uscita della Grecia dall’euro?
“No, anche se la Grecia ha tirato molto la corda. Ho percepito una grande irritazione a Bruxelles e in alcuni Paesi membri. Atene sta sprecando l’effetto novità. E questo a causa della contraddizione tra le promesse elettorali e le necessità successive. Hanno promesso tutto e subito. Mi preoccupa la forte tensione psicologica nei confronti del governo greco. Ha messo in difficoltà i mediatori e questo non bisognerebbe mai farlo”.”.
Qual è il pericolo più forte che incombe oggi sull’Europa?
“L’assenza di leadership che porta all’irrilevanza. Voglio dire, non è che i rapporti con Helmut Kohl fossero tutti rose e fiori. Non è che mi piacesse quando diceva continuamente che dovevamo fare i compiti a casa. Ma per fare quei compiti, mi lasciava almeno la penna e i fogli. Oggi non è così. Il problema europeo è che i rapporti di forza sono talmente cambiati, che si pensa sempre meno a mediazioni. Dieci anni fa, arrivai a Bruxelles convinto di trovare un mondo franco-tedesco. Certo erano potenti, ma mi accorsi subito che i funzionari più forti erano gli inglesi. Poi si è indebolita la Francia, anche per le liti interne. La Gran Bretagna ha avuto la stupida idea del referendum, condannandosi da sola all’irrilevanza. A quel punto tutti i Paesi si sono rifugiati sotto l’ombrello tedesco, quindi tutte le politiche economiche alternative hanno perso rilevanza. Arrivati qui o c’è una Germania in grado di capire che non c’è leadership senza responsabilità, oppure è difficile che l’Europa si possa alzare. Non è che gli americani nel dopoguerra abbiano fatto il piano Marshall perché erano filantropi, ma perché avevano bisogno di alleati forti. Ci vuole un direttore d’orchestra che non abbiamo. Io ho paura che un domani i tedeschi pensino di potercela fare da soli, ma non è così. Certo oggi la loro economia va fortissima, a Pechino circolano tante automobili tedesche. Ma non ho cambiato idea: il mondo globalizzato ha bisogno di una forza più robusta”.