Siamo ottimisti, la rivoluzione dell’energia pulita è inarrestabile (ma la strada è ancora lunga)
Siamo ottimisti, la rivoluzione dell’energia pulita è inarrestabile (ma la strada è ancora lunga)
Migliori prestazioni, minori costi e un impiego di materiale meno inquinante ci porteranno nella giusta direzione ma è un cammino lungo e complesso
Prefazione di Romano Prodi al libro “Il mondo rinnovabile” (Luiss University Press) di Valeria Termini su Linkiesta del 15 marzo 2019
Già il titolo di questo interessante, approfondito ed equilibrato saggio, ci pone in una giusta prospettiva. L’autrice non vuole illuderci che sia inesorabilmente cominciata l’età d’oro delle energie rinnovabili ma non nasconde i progressi e i dati confortanti che ci invitano ad apprezzare i segni di cambiamento che stanno conducendo verso direzioni inedite la politica energetica mondiale. Il mondo è infatti già “rinnovabile” (anche se non ancora rinnovato) e l’energia pulita può cambiare “l’economia, la politica e la società”. Si tratta però di un cammino in una fase ancora iniziale, con caratteristiche e velocità diverse nelle diverse parti del globo e con grandi ostacoli tecnici, economici e politici ancora da superare.
Da un lato l’autrice analizza, in modo scorrevole ma con una comprensibile e rigorosa sintesi, i progressi che il settore delle rinnovabili ha compiuto nel recente passato. Prima di tutto sotto l’aspetto scientifico e tecnologico dei processi produttivi. Non solo nell’eolico e nel solare ma anche nei settori che meno hanno riempito la pubblicistica in materia, come le biomasse, il geotermico e perfino la produzione idroelettrica che, in fondo, è stato il lontano precursore delle energie rinnovabili. Non esiste cioè un’unica energia rinnovabile ma tanti filoni che debbono comporre la complessità degli strumenti necessari per affrontare la transizione energetica, senza la quale il disastro del pianeta appare inevitabile. Un progresso che attende e sta preparando nuovi salti in avanti non solo nel campo della produzione ma anche in quello della conservazione e dello stoccaggio, così importanti per l’affermazione di un settore produttivo che è per sua natura dipendente da un’estrema variabilità di fattori, come l’intensità del vento e dell’insolazione.
Migliori prestazioni, minori costi e un impiego di materiali meno inquinanti nella produzione delle batterie sono quindi un’ulteriore complessa barriera che si sta superando per arrivare al completamento della rivoluzione e che richiede inoltre un radicale cambiamento delle reti di trasporto dell’energia. Un cammino ancora complesso ma che l’autrice ritiene ormai irreversibile perché l’impegno crescente nello sviluppo di nuovi materiali e nuove tecnologie allarga gli orizzonti ed abbassa i costi in tutti i campi nei quali la transizione energetica è impegnata. Il sostanziale ottimismo sul successo tecnologico della transizione energetica si fonda appunto sul fatto che i filoni e le fonti di progresso stanno operando in una pluralità di direzioni talmente vasta e profonda da garantire un continuo cammino in avanti nelle tecniche e nei costi. Il problema dei costi è infatti centrale. Per questo motivo, in modo sostanzialmente realistico, la scomparsa del carbone come componente fondamentale della transizione energetica non è data né per l’oggi né per un vicino domani. Si nota con aperta soddisfazione che il consumo mondiale di carbone, mostruosamente cresciuto fino al 2015, ha cominciato finalmente a diminuire, anche se, in parecchi casi, questa diminuzione è in favore del gas naturale, fonte molto meno inquinante ma pur sempre produttore di CO2.
La diminuzione della dipendenza dal carbone si pone inoltre in modo completamente variabile a seconda dei diversi paesi. Abbiamo addirittura casi, come quello dell’India e del Sud Africa dove la sua già dominante presenza rischia di essere ulteriormente aumentata nella futura politica energetica. E altri casi, come il Kenya, dove si parla di costruire per la prima volta una centrale a carbone, e altri ancora, come la Cina, dove la fuga dal carbone è solo parziale e la costruzione di nuove centrali a carbone costituisce perciò ancora una parte dominante della politica energetica. Di fronte a questo si accoglie con giustificata soddisfazione l’intenzione di abbandonare definitivamente questa risorsa così inquinante da parte di alcuni importanti paesi europei, tra i quali non solo l’Italia ma anche la Gran Bretagna e la Germania, che hanno sempre avuto il carbone a fondamento del proprio sviluppo industriale. Come sia complessa questa transizione lo si deve dedurre dal fatto che, in palese contraddizione con queste dichiarazioni e con gli efettivi passi in avanti nella lotta contro l’inquinamento, la stessa Germania sta costruendo una nuova centrale elettrica alimentata a lignite, combustibile ancora più inquinante dello stesso carbone.
Quest’osservazione ci porta a mettere in rilievo un’altra difficoltà della transizione, la difficoltà costituita dai costi economici e sociali di questo processo. Costi che danno vita ad una serie non trascurabili di contraddizioni. Molti governi vengono infatti spinti a introdurre o conservare aiuti e incentivi dedicati a salvare l’occupazione e l’economia delle zone carbonifere mentre poi gli stessi governi, pressati dalle nuove esigenze e dalla nuova consapevolezza dei propri cittadini, promuovono un’analoga politica di incentivi per lo sviluppo delle nuove fonti di energia. Una politica di incentivi alle energie pulite che ha provocato spesso un impiego eccessivo e distorto di risorse. Il problema degli incentivi pubblici alle nuove fonti energetiche si pone quindi come un altro tema fortemente controverso. In fondo tali aiuti si pongono nella tradizionale linea dei sussidi che, in tutta la storia economica, i governi hanno prestato alle “industrie nascenti” ma la stessa storia economica ci insegna che deve arrivare presto il momento in cui i nuovi settori debbono procedere sulle proprie gambe.
Oggi ci troviamo proprio in questo delicato passaggio dall’infanzia alla completa autonomia concorrenziale delle nuove energie. Un passaggio che è fortemente condizionato dai mutamenti concorrenziali delle fonti energetiche tradizionali. Per fare un esempio concreto possiamo citare il prezzo di mercato del carbone, che negli ultimi anni è addirittura precipitato. Tale crollo ha certamente favorito la capacità concorrenziale di questo combustibile così inquinante ma, dall’altro, sta mettendo fuori mercato alcune tra le più grandi imprese carbonifere americane, che sono ora sull’orlo del fallimento nonostante il sostanzioso appoggio del presidente Trump. Anche dalle politiche governative nei confronti del carbone dipenderà quindi la rapidità del processo di cambiamento, pur nella certezza che la rivoluzione in corso non può essere arrestata. Il fatto che la rivoluzione stia procedendo lo si deduce anche dal comportamento dei grandi protagonisti dell’economia e della finanza mondiale che, seppure lentamente e in molti casi solo perché spinti dall’opinione pubblica e dalle aspettative di profitto nelle produzioni di frontiera, dirigono crescenti risorse verso le nuove produzioni energetiche sottraendole agli impieghi tradizionali.
Progresso tecnologico e cambiamenti nella società ci porteranno quindi nella giusta direzione ma è un cammino lungo e complesso. La descrizione di questo cammino occupa opportunamente una parte di questo saggio che prende avvio con l’analisi del protocollo di Kyoto, primo grande accordo del settore a livello mondiale, voluto soprattutto dall’Unione Europea che per anni ne ha spinto la realizzazione. Un accordo che finalmente presenta il problema ambientale come problema di tutti e che viene ratificato con larga adesione, ma che non può rivoluzionare l’andamento degli eventi perché manca la firma dei due paesi che più influiscono sugli equilibri economici e ambientali globali: gli Stati Uniti e la Cina. Ci troviamo quindi di fronte a un’Europa che si pone all’avanguardia del cambiamento con ambiziosi obiettivi ma che non riesce poi a raggiungerli perché non è in grado di trovare una sintesi fra i divergenti interessi degli stessi paesi europei. I progetti europei rimangono perciò ancora tali e le distanze fra le politiche non si accorciano. Basti ricordare le tensioni fra i paesi del Nord e del Sud riguardo all’approvvigionamento del gas. La Germania da un lato guida la politica delle sanzioni contro la Russia e, dall’altro, raddoppia con il Nord Stream il suo approvvigionamento di gas dalla stessa Russia contro i legittimi interessi di tutti i paesi del sud dell’Europa. Ho citato il caso del Nord Stream come esempio della mancanza di solidarietà europea ma, purtroppo, ne potrei citare tanti altri perché, nel grande libro dell’energia, non vi è un solo capitolo nel quale vi sia un’unanime politica europea. Si fa persino fatica a ricordare come la politica energetica sia stata alla base del progetto europeo fin dai tempi della CECA e dell’Euratom.
La ricerca di una strategia globale per riafermare la necessità di un “mondo rinnovabile” ha ricevuto certamente un impulso positivo dall’accordo di Parigi del 2015 (il così detto COP21). Tale accordo prevede una forte azione congiunta nei confronti del cambiamento climatico e, di conseguenza, un impegno in direzione di un maggiore uso delle energie rinnovabili. Ad esso aderivano finalmente anche gli Stati Uniti e la Cina ma, almeno fino ad ora, la sua applicazione si è limitata ad una espressione di volontà politica, senza la messa in atto delle decisioni economiche che l’avrebbero dovuta completare. L’attenzione successiva sul COP21 si è soprattutto concentrata sul ripudio dell’accordo stesso da parte del presidente Trump. Fatto indubbiamente rilevante ma ancora più rilevante appare la dura realtà, che cioè i comportamenti degli altri paesi non sono stati sostanzialmente modificati da tale accordo.
Le emissioni di CO2 sembravano immediatamente tendere a diminuire ma ci si è dovuti poi rendere conto che questa diminuzione era soprattutto frutto della crisi economica. Quando è ricominciata la ripresa produttiva la politica energetica ha infatti ripreso la sua tradizionale tendenza verso un maggiore inquinamento. Ben vengano quindi le espressioni di buona volontà e le promesse di comportamenti virtuosi che provengono da tante direzioni, compresi importanti paesi europei, a cominciare dalla Germania e dall’Italia. Resta però chiaro che la forza del cambiamento deve soprattutto essere originata dai progressi interni al settore delle nuove energie. La definitiva afermazione delle energie rinnovabili e il loro indispensabile contributo alla futura vivibilità del nostro pianeta restano quindi soprattutto affidati al progresso tecnologico e alla capacità concorrenziale che gli strumenti di questa grande rivoluzione saranno in grado di mettere in atto.
L’autrice conclude la sua accurata analisi con un fondato giudizio ottimista. Un giudizio comprovato non solo dai progressi del passato ma anche dalle innovazioni che, pur non ancora tradotte in un prodotto finito, stanno tuttavia accelerando la velocità e la profondità della trasformazione in corso. Da ultimo, ma non meno importante, il saggio mette in evidenza come le nuove fonti rinnovabili e l’elettrificazione difusa, con minireti o addirittura off grid, siano la base per il futuro sviluppo dell’Africa e per affrontare la povertà energetica con soluzioni locali. Con tutti gli elementi di prudenza che debbono essere tenuti presenti quando si tratta di proiettare nel futuro gli sviluppi di un processo ancora in profonda evoluzione si può davvero concludere, in consonanza con l’autrice, che siamo già entrati in una fase nella quale l’energia pulita può davvero “cambiare l’economia, la politica e la società”