L`industria: passato o futuro della nostra economia?
Lezione di Romano Prodi presso la Real Academia de Ciencias Economicas y Financieras de Espana
Barcellona, 12 marzo 2009
Una certa attività politica svolta tra Roma e Bruxelles mi ha, per un notevole numero di anni, tenuto lontano dagli studi di economia industriale che per tanto tempo avevo con passione coltivato. Sono stati anni di grandi cambiamenti e di trasformazioni radicali nel sistema economico mondiale. Si sono aperti nuovi orizzonti nella ricerca e nella produzione. Nuovi paesi sono entrati imperiosamente nella grande arena dell’economia mondiale. Nuovi protagonisti hanno rubato la scena ai vecchi attori.
Quando pochi mesi fa ho ripreso in mano, non con l’affrettato sguardo del politico (sempre protetto e spesso annebbiato dai suoi uffici studi), il quadro di riferimento dell’industria mondiale, mi sono trovato di fronte a una trama quasi irriconoscibile. Un quadro mutato negli aspetti quantitativi e qualitativi della produzione e del commercio internazionale.
Non volendo annoiarvi con una valanga di dati statistici, l’eccesso dei quali è lo strumento migliore per nascondere la necessaria riflessione, basti mettere in rilievo che, all’immediata vigilia della grande crisi che stiamo ora vivendo, ben il 40% delle esportazioni mondiali proveniva da paesi di recentissima industrializzazione, con tutte le implicazioni che questo semplice dato contiene. Soprattutto se teniamo conto del fatto che, vent’anni fa, questa quota era relativamente trascurabile.
Oltre a questa osservazione sui mutamenti del commercio internazionale, mi limito a richiamare la vostra attenzione sul trasferimento di settori industriali verso l’Asia, sulle crisi di interi distretti produttivi negli Stati Uniti ed in Europa e sulle conseguenze politiche e sociali che questi cambiamenti hanno prodotto. Mutamenti epocali che hanno, per il bene e per il male, radicalmente cambiato il nostro modo di vivere.
Mai per un attimo ho pensato che questi cambiamenti abbiano avuto effetti soltanto o prevalentemente negativi: essi sono stati il necessario strumento per un aumento generale del benessere del globo e per un passaggio verso condizioni di vita più umane di miliardi di persone, anche se è evidente che tutti i grandi cambiamenti lasciano vittime sulle loro strade e creano la necessità di interventi politici che non sempre sono all’altezza della situazione e che sono risultati particolarmente difficili in un periodo storico in cui il filone portante della scienza economica riteneva che il mercato fosse sempre in grado di trovare il proprio equilibrio senza interventi esterni.
Un periodo storico in cui perfino il termine “politica industriale” suonava eretico nelle orecchie di gran parte degli economisti.
Ciò che più mi ha colpito, e su cui vorrei riflettere insieme a voi, non è tanto la dimensione di questi cambiamenti, perché essa è nota a tutti voi e fa parte della nostra comune esperienza, quanto invece le reazioni dei politici e degli studiosi di fronte a questi eventi. Soprattutto vorrei esaminare come essi hanno interpretato il rapidissimo passaggio da un’economia dominata dall’industria ad un’economia di carattere prevalentemente terziario.
Ebbene, il processo di deindustrializzazione e di terziarizzazione dell’economia è stato nella maggior parte dei casi interpretato come un passaggio naturale, identico nelle cause e nelle conseguenze a quello che si era manifestato con l’abbandono dell’agricoltura nelle generazioni precedenti.
Gli indici del processo di terziarizzazione della società sono stati perciò considerati la misura e il segnale del progresso di tutti i paesi a elevato livello di reddito. Più elevato era il tasso di terziarizzazione dell’economia di un paese, più forte appariva il suo sistema economico.
Vi è naturalmente una certa parte di verità in questa sapienza convenzionale perché l’industria stessa, se vuole progredire, ha bisogno di un supporto di servizi efficiente e moderno. Non vi è attività manifatturiera moderna capace di prosperare se non ha al suo fianco una sofisticata struttura finanziaria, una scuola per tutti, raffinati centri di ricerca, infrastrutture moderne ed una pubblica amministrazione capace di accompagnare, con la sua efficienza, il complicato funzionamento di una complessa organizzazione economica.
Tutto ciò si riflette naturalmente in un mutamento dei dati statistici e censuari, la lettura dei quali ci spinge a concludere che inevitabilmente il progresso economico di un paese si accompagna al prevalere del settore terziario.
Nemmeno io mi sottraggo completamente a questa conclusione, ma una più attenta riflessione sui comportamenti dei sistemi economici contemporanei mi porta a sostenere che in queste valutazioni ci si è spinti troppo avanti.
Esse infatti trascurano il grande contributo che viene apportato al progresso e all’intelligenza di un paese da una forte e moderna industria manifatturiera, anche se, ovviamente, essa è sempre più spesso una manifattura in cui anche i colletti blu sono laureati o diplomati.
Se è valida l’affermazione che non vi è un’industria efficiente se non è supportata da un moderno settore terziario, è infatti altrettanto valida l’affermazione opposta che, almeno in un grande paese, non vi può essere nel lungo periodo un terziario prospero se non è sorretto ed affiancato da una forte industria manifatturiera.
Entrambe queste affermazioni sono compatibili con la continua diminuzione degli addetti all’industria, dato che nel comparto produttivo l’automazione gioca un ruolo ormai dominante. Il continuo aumento degli addetti al terziario, è inoltre in parte esaltato dal fatto che la moderna organizzazione aziendale tende a decentrare all’esterno dell’impresa una parte sempre crescente del processo produttivo. Non solo servizi di pulizia, ristorazione e manutenzione, ma funzioni aziendali essenziali come la progettazione o la stessa contabilità. L’attività industriale cambia i suoi connotati nel tempo, mentre la medesima flessibilità non può evidentemente esistere nelle regole dei censimenti. Questo aspetto tecnico tende naturalmente ad accentuare ulteriormente, dal punto di vista statistico, il processo di deindustrializzazione, attribuendo al terziario addetti e fatturati che, in precedenza, venivano invece attribuiti all’ industria.
Anche tenendo conto di queste necessarie correzioni, si deve tuttavia convenire che il calo del peso dell’industria negli Stati Uniti e in alcuni grandi paesi europei ha superato ogni previsione e, a mio parere, anche molte logiche di convenienza economica.
Per svolgere questo ragionamento prendo come esempio la Gran Bretagna, paese che è stato il protagonista e il simbolo della rivoluzione industriale.
Non può non destare stupore constatare che oggi operano nell’industria britannica circa 3 milioni di addetti, mentre più di 6 milioni sono attivi nei servizi legati alla banca e alla finanza.
Un dato quasi incredibile, se si pensa che all’inizio degli anni ’80 il rapporto era esattamente inverso, con 3 milioni impiegati nel settore finanziario e 7 milioni nell’industria.
In meno di una generazione e con un consenso quasi unanime si è compiuta una trasformazione che, per rapidità e ampiezza, non ha avuto confronti nemmeno ai tempi della prima rivoluzione industriale.
Ancora più sorprendente, nel sottolineare la marginalità dell’industria nel sistema economico britannico, è constatare che il valore aggiunto dell’industria è pari al 12,6% del valore aggiunto dell’intera economia.
Non dissimili sono i dati della Francia e degli Stati Uniti.
Per questo rapido confronto mi voglio tuttavia limitare ai paesi europei, in modo da poter fare riflessioni e confronti su sistemi che sono fra di loro maggiormente omogenei.
Ebbene i dati censuari ci offrono sufficienti elementi di meditazione perché le diversità nel processo di passaggio dall’industria al terziario vanno oltre le previsioni e le comuni opinioni in materia.
Per accentuare l’attenzione sui problemi di nostro interesse ho messo soprattutto in rilievo i settori che riguardano l’economia reale. Nella tabella che segue (tratta dai dati Eurostat) ho voluto semplicemente isolare il diverso peso dell’industria (con uno sguardo anche all’agricoltura e alle costruzioni) nei cinque grandi paesi della “vecchia Europa”.
Valore aggiunto lordo percentuale (a prezzi correnti) per diverse attività
(anno 2007 – Dati Eurostat)
|
Agricoltura |
Totale Industria (escluso le Costruzioni) |
Industria Manifatturiera |
Costruzioni |
Germania |
0,9 |
26,7 |
23,9 |
4,0 |
Spagna |
2,9 |
17,5 |
15,2 |
12,3 |
Francia |
2,2 |
14,1 |
12,2 |
6,5 |
Italia |
2,0 |
20,8 |
18,4 |
6,3 |
Gran Bretagna |
0,7 |
16,7 |
12,6 |
6,4 |
Nell’economia di queste mie riflessioni non mi soffermo sui dati che riguardano il settore agricolo, limitandomi, a questo proposito, a mettere in rilievo il dato della Spagna, che si presenta come primo paese in termini di percentuale del valore aggiunto agricolo sul totale, superando (anche se ovviamente non in dati assoluti) la stessa Francia.
La nostra attenzione, nel leggere la semplice tabella tratta da Eurostat, riguarda l’industria (e l’industria manifatturiera in particolare). In essa il dato che riguarda la Germania si distacca fortemente da tutti gli altri, soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna. Non è una differenza di poco conto. È una differenza abissale in quanto il valore aggiunto dell’industria manifatturiera germanica è sostanzialmente il doppio in termini percentuali rispetto alla Francia e alla Gran Bretagna.
Singolare è il caso dell’Italia, che si trova in situazione intermedia ma che, se escludiamo le regioni del Mezzogiorno nelle quali il valore aggiunto industriale è a livelli minimi, raggiunge livelli di intensità del settore manifatturiero pari a quelli tedeschi.
Esaminando l’industria europea si arriva al sorprendente risultato che essa si è sempre di più concentrata in una specie di cilindro che dal Nord Europa (ma soprattutto dalla Germania) scende fino a metà dell’Italia e lì si ferma.
I grandi paesi a ovest di questo cilindro, segnatamente Francia e Regno Unito, pur possedendo campioni nazionali di grandissimo rilievo mondiale e di assoluta efficienza tecnologica, non hanno tuttavia una diffusione dell’industria paragonabile a quella di Germania e Italia.
Germania e Italia, inoltre, presentano nel 2007 non solo il più alto valore aggiunto totale nel settore manifatturiero (rispettivamente 519 e 251 miliardi di euro) ma anche il più alto valore aggiunto pro-capite. Anche questo dato merita ampia riflessione e studi più approfonditi perché sembrerebbe dimostrare che una più diffusa presenza dell’industria garantisce più elevati livelli di produttività e che quindi può diventare pericoloso scendere al di sotto di certi limiti.
Anche se non è certo facile definire quali siano questi limiti, credo che sia necessario disporre di studi preliminari per elaborare una seria politica industriale.
Un’ulteriore riflessione su questi temi è suggerita dai dati elaborati dalla Fondazione Edison che ha esteso l’analisi dei dati Eurostat (riferiti al 2005) ad altri paesi di antica industrializzazione come Svezia, Olanda, Belgio e Irlanda.
Nella tabella (n. 2) si evidenzia il rapporto fra il valore aggiunto dell’industria manifatturiera (più agricoltura e turismo) da un lato e il valore aggiunto di finanza e costruzioni dall’altro. Cioè i due settori che hanno più contribuito a creare la “bolla” che ha portato alla crisi in cui ora ci dibattiamo.
Raffronto tra il peso dei principali settori di economia reale e dei settori oggi più in difficoltà a causa della “bolla” immobiliare e finanziaria in alcuni Paesi UE: valore aggiunto a prezzi correnti, dati di confronto per l’anno 20(valori in miliardi di euro)
|
Agricoltura, caccia, pesca |
Industria manifatturiera |
Turismo (Alberghi, ristoranti) |
TOTALE PRINCIPALI ATTIVITA’ DI ECONOMIA REALE (A) |
Intermediazione finanziaria |
Costruzioni |
TOTALE SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE (B) |
RAPPORTO TRA IL VALORE AGGIUNTO DEI SETTORI DI ECONOMIA REALE E QUELLO DEI SETTORI OGGI PIU’ ESPOSTI ALLA BOLLA IMMOBILIARE E FINANZIARIA(A:B) |
Paesi più specializzati nell’economia reale (escluse costruzioni) |
||||||||
Germania |
17,3 |
459,3 |
33 |
509,6 |
100,8 |
80,2 |
181 |
2,8 |
Svezia |
2,8 |
50,6 |
3,8 |
57,2 |
11,5 |
11,7 |
23,2 |
2,5 |
Italia |
28,2 |
236,9 |
47,9 |
313 |
62,1 |
77,5 |
139,6 |
2,2 |
Paesi con specializzazione “mista” |
||||||||
Belgio |
2,2 |
46 |
4,3 |
52,5 |
15,9 |
13 |
28,9 |
1,8 |
Francia |
33,8 |
204,9 |
36,7 |
275,4 |
75,3 |
87,5 |
162,8 |
1,7 |
Paesi più specializzati nella finanza e nelle costruzioni e oggi dunque più “esposti” alla crisi |
||||||||
Spagna |
26 |
128,8 |
61 |
215,8 |
37,7 |
93,8 |
131,5 |
1,6 |
Olanda |
9,5 |
65,2 |
8,5 |
83,2 |
35,1 |
24,6 |
59,7 |
1,4 |
Irlanda |
2,7 |
33,7 |
3,2 |
39,6 |
14,5 |
14,1 |
28,6 |
1,4 |
Regno Unito |
10,9 |
217,3 |
47,9 |
276,1 |
137,4 |
99,5 |
236,9 |
1,2 |
Fonte: elaborazione Fondazione Edison su dati Eurostat
Ebbene, anche prendendo in esame questi pur discutibili parametri, la differenza strutturale fra i diversi paesi europei appare degna della massima attenzione. Naturalmente ogni conclusione riguardo ai rapporti tra struttura produttiva e fragilità di fronte alla crisi economica appare oggi prematura e non provata. Mi auguro tuttavia che anche su questi particolari temi dei rapporti fra struttura produttiva e performance dell’economia si verifichino gli approfondimenti scientifici necessari per elaborare una politica industriale non solo a livello nazionale ma anche e soprattutto a livello europeo.
Non credo che si possa arrivare a definire un livello ottimale e nemmeno un livello minimo dell’attività industriale in ogni paese, ma penso che una riflessione su questi temi non sia affatto fuori luogo.
È evidente che, per arrivare a conclusioni meno affrettate, sarebbe necessaria un’analisi disaggregata per settori, per dimensione e tipologia di imprese, ma già le correlazioni messe in evidenza ci obbligano ancora una volta a mettere in discussione l’assioma da cui siamo partiti, cioè che i sistemi economici progrediscono sempre con il progredire del settore terziario.
Tanto più che il livello di tecnologia e di innovazione iniettato nell’industria si traduce in un continuo aumento di produttività del settore.
Anche le proiezioni future fanno pensare ad un continuo e sostanzioso aumento del valore aggiunto per ora lavorata dell’industria, anche senza tenere in conto i potenziali progressi di settori ad alta intensità di ricerca come le scienze della vita e le nuove energie.
Un altro elemento che aggiunge forza al dubbio sul parallelismo tra l’esodo dall’agricoltura e quello dall’industria è dato dal fatto che una serie di fattori, come l’aumento dei costi di produzione nei paesi di nuova industrializzazione, e le più raffinate e specifiche esigenze da parte dei consumatori, spingono a pensare che il grande processo di delocalizzazione che si è verificato negli ultimi due decenni abbia ormai raggiunto e superato il suo massimo sviluppo.
Su questo punto non vi è ancora un segnale univoco, anche se l’ipotesi di un’attenuazione del fenomeno è confermata dal fatto che le migrazioni di settori a basso valore aggiunto e ad altrettanto basso contenuto tecnologico si sono in gran parte già concretizzate. Pensiamo allo spostamento verso l’Europa dell’Est e soprattutto verso l’Asia, di tessile, abbigliamento, giocattoli, mobili, arredi per la casa e componenti meccaniche ed elettroniche elementari. Trasferimenti ulteriori avverranno certamente ma ad un ritmo meno impetuoso e con possibilità di strategie di contenimento e di reazione assai più efficaci che in passato. Non parlo naturalmente di azioni di tipo protezionistico, che costituirebbero per tutti un tragico destino, ma di una capacità di risposta prima di tutto attraverso processi di innovazione e di automazione che rendono meno determinante la differenza del costo di mano d’opera che è stato ed è la causa principale del decentramento produttivo.
Ed in secondo luogo, in conseguenza di un maggior grado di sofisticazione da parte del consumatore si nota, in un numero crescente di casi, un ritorno di competitività da parte delle imprese che, per consuetudine o vicinanza geografica, sono in grado di meglio interpretare questa maggiore sofisticazione del consumatore.
Non è tuttavia questo il tema su cui voglio ora soffermarmi: mi preme infatti maggiormente ritornare a riflettere sulle diversità della presenza dell’industria in paesi europei con un livello simile di reddito e di sofisticazione della società.
Parlo soprattutto del più alto tasso di presenza industriale della Germania, ma lo stesso discorso vale per l’Italia del centro-nord e per alcune aree ad esse vicine (e, al di fuori dell’Europa, per il Giappone).
In Germania (ed in Giappone) l’importanza dell’industria manifatturiera si colloca in un ordine quantitativo non lontano dal doppio di quello britannico, francese o americano.
Economisti, storici e sociologi si sono naturalmente affannati per spiegare queste differenze ed io stesso vi ho dedicato una certa attenzione, forse esagerando ma forse no, nell’attribuire importanza primaria all’istruzione tecnica. In questa sede voglio limitarmi a sottolineare alcune conseguenze non trascurabili sull’economia del paese (e soprattutto sulla bilancia commerciale) di una presenza industriale particolarmente intensa.
Le conclusioni mi sembrano abbastanza evidenti: tutti i paesi con un alto indice di presenza industriale mostrano una bilancia commerciale molto più favorevole rispetto ai paesi che più velocemente hanno proceduto verso un processo di deindustrializzazione, qualsiasi sia la dimensione del mercato e del grado di specializzazione settoriale.
Prendendo come campione gli ultimi dodici mesi (v. Economist, Economic and Financial Indicators 21 febbraio 2009) la bilancia commerciale degli Stati Uniti ha un passivo di 821 miliardi di dollari, la Gran Bretagna di 173 , la Francia di 80 miliardi, e la Spagna di 149.
La Germania presenta invece un attivo di 264 miliardi e il Giappone di 36, mentre l’Italia presenta un modesto passivo di 17 miliardi, pur essendo importatrice della quasi totalità del proprio fabbisogno energetico. Si tratta naturalmente di un quadro limitato alla bilancia commerciale. Esso non tiene evidentemente conto dei movimenti dei capitali e di tutte le altre voci che formano il totale della bilancia dei pagamenti.
Se ritorniamo per un attimo alla bilancia commerciale e la depuriamo dalla bolletta energetica, troviamo che nel 2008 l’Italia ha mostrato un surplus commerciale pari a 61,4 miliardi di euro. E non sto certo parlando di un paese privo di problemi, ma di un paese sul quale hanno fortemente pesato in passato ed ancora oggi pesano fattori particolarmente negativi che riguardano la pubblica amministrazione, le infrastrutture, l’energia, i servizi ed il secolare problema non ancora risolto del divario territoriale fra il Centro-Nord ed il Sud del paese.
Ebbene, il fatto di avere conservato un apparato industriale di dimensioni ancora ragguardevoli, ha permesso all’Italia di fare fronte a tutte le debolezze precedentemente elencate e di mantenere un elevato livello di competitività nonostante il suo grado complessivo di “attrattività” sia così basso da essere costantemente in coda in tutti gli indici che riguardano l’ammontare degli investimenti esteri.(v. M. Fortis, L’Italia è seconda per competitività nel commercio mondiale, il Trade Performance Index UNCTAD/WTO 2006) .
Per sottolineare l’importanza dell’industria nell’economia contemporanea ho messo in particolare rilievo il paradosso italiano anche perché mi trovo a rappresentare questo paese nel consesso di fronte al quale ho l’onore di parlare, ma conseguenze ancora più evidenti sarebbero emerse se avessi presentato di fronte a voi i dati riguardanti la Germania che, negli indicatori precedentemente presentati, risulta al primo posto mondiale nel surplus della bilancia commerciale.
Ed è ancora più interessante esaminare ancora l’indice TPI (Trade Performance Index) elaborato da UNCTAD/WTO che prende in considerazione non solo il saldo commerciale, ma anche il livello di export pro-capite ed altre caratteristiche come la diversificazione dei mercati di sbocco. Ebbene in questo indice la Germania conquista nel 2006 ben 7 primi posti tra i 14 macrosettori esaminati e primeggia in settori che hanno tra di loro diverse caratteristiche tecnologiche ed un diverso contenuto di innovazione.
L’industria tedesca prevale ad esempio nei mezzi di trasporto, nella chimica, nella meccanica elettrica, nelle macchine per l’industria, mentre l’Italia prevale ovviamente nei suoi settori più tradizionali come abbigliamento, calzature e mobili, ma tiene il secondo posto anche in comparti come la meccanica elettrica, la meccanica strumentale e i manufatti di base.
Naturalmente tutte queste riflessioni fotografano situazioni precedenti la crisi economica mentre, allo stato attuale, non abbiamo indicazioni soddisfacenti né sulla durata né sulla profondità della crisi.
E nemmeno sappiamo come i diversi paesi usciranno da questa crisi, anche se io penso che le evoluzioni ed i dibattiti in corso spingano a pensare che il “problema industriale” avrà una nuova centralità sia nelle discussioni accademiche che nelle politiche governative di tutti i paesi ad elevato livello di sviluppo.
Un fatto è già acquisito, che cioè dopo vent’anni nei quali il termine era stato bandito, si ritorna a parlare di “politica industriale”, anche se ci auguriamo che questo indispensabile ritorno di saggezza e di buon senso non sia maldestramente usato per scopi protezionistici.
Se le precedenti riflessioni mi spingono a pensare ad una nuova futura centralità del problema industriale, questo non significa che non si verificheranno grandissimi cambiamenti sia dal punto di vista di modelli organizzativi delle imprese, sia dal punto di vista settoriale.
Abbiamo già accennato alla fondata ipotesi che due settori saranno particolarmente rinforzati, e cioè il settore della scienza della vita e il settore energetico-ambientale.
A questi orientamenti corrispondo chiare indicazioni di politiche pubbliche di importanti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dove sono previste ingenti risorse a favore dei così detti “green jobs”.
Nella pubblicistica generale si è preferito mettere in rilievo i sussidi all’industria dell’automobile ma non si debbono dimenticare i 18,5 Miliardi $ per le energie rinnovabili, i 2 M$ per le nuove batterie, i 2M$ per il sequestro dell’anidride carbonica.
Il tutto con un aumento particolarmente positivo dei “green jobs” nel settore manifatturiero.
È probabile che la crescita di questi nuovi settori, per la loro particolarità, possa avvenire anche al di fuori di un diffuso contesto industriale ma credo che, proprio per la tecnologia di incrocio che essi richiedono, il loro sviluppo sia grandemente favorito da un ambiente industriale fortemente radicato e diversificato.
Anche la presente crisi ed i suoi probabili sviluppi produttivi ci spingono a porci di nuovo la domanda che è stata il filo conduttore di queste brevi riflessioni e cioè quale è e quale sarà il ruolo dell’industria nei paesi più avanzati e se esiste un livello minimo di presenza dell’industria manifatturiera al di sotto del quale vengono grandemente ridotte le prospettive di efficienza e di sviluppo dell’intera economia.
Sappiamo che non esistono leggi universali in materia, sappiamo che grandissime sono le diversità da paese a paese ma sappiamo anche che le argomentazioni svolte in precedenza e gli interrogativi da esse sollevate meritano un’attenzione molto superiore a quelle riservate a questi temi in passato.
L’industria europea è troppo importante per non richiedere riflessioni e risorse dedicate a preparare per essa una nuova primavera.
Romano Prodi
P.S.: Può sembrare una scelta un po’ particolare quella di parlare di problemi strutturali di lungo periodo in presenza di una gravissima crisi economica mondiale.
Credo invece che se anche negli anni scorsi avessimo affrontato questi problemi forse avremmo evitato qualche disastro e ancora di più credo che proprio quando la crisi è più grave bisogna pensare a come sistemare le cose per preparare un futuro un poco migliore.